Satnam aveva trentuno anni. Era arrivato dalla regione indiana del Punjab in Italia, e precisamente nell’Agro pontino, tra anni fa. Lavorava per quattro euro all’ora nei campi, senza un contratto regolare e forse anche senza permesso di soggiorno. Con lui la moglie e tanta miseria: quella lasciata nel cuore dell’Asia, quella trovata qui in Europa dove era diventato praticamente uno schiavo.

Qualche giorno fa è rimasto stritolato da macchinario avvolgiplastica che gli ha reciso un braccio e mutilato le gambe e provocato un trauma cranico. I padroni che lo avevano ingaggiato lo hanno preso e scaricato davanti a casa, lasciando lui sull’uscio e l’arte reciso in una cassetta per pomodori. Come se fosse una merce anche quella, il frutto di un lavoro amaro, ultrasottopagato e che non dà alcun diritto ma, anzi, se ti fai male o muori nessuno lì ti conosce e ti ha mai visto.

Intervistato dai telegiornali nazionali, il titolare dell’azienda agricola ha pronunciato con una seraficità che provoca un misto di disgusto e orrore queste parole: «Mio figlio aveva detto al lavoratore di non avvicinarsi al mezzo, ma il lavoratore ha fatto di testa sua. Una leggerezza, purtroppo». Dunque, caro Satnam, è colpa tua. Si vede che eri un masochista e sei voluto morire.

O forse, più probabilmente, eri talmente esausto, con l’arrivo anche del caldo estivo, e talmente privo di qualunque minima tutela e garanzia in materia di sicurezza, che anche la più attenta prudenza per la propria vita scivola via tra i rulli di questi mostri meccanici azionati dalla incoscienza di chi ricerca solo il profitto a bassissimo costo e nulla di più. Anche quella di Satnam Singh è una delle tante piccole storie ignobili che – avrebbe cantato mestamente Guccini – ci tocca raccontare.

Ci tocca e, quindi, si deve, perché al lavoro agricolo stanno come sinonimi le parole “caporalato” e “neoschiavismo” nei campi. Basta scorrere le cronache degli anni passati per rendersi conto di quanti braccianti sono crollati sotto il sole del Sud, colpiti da infarto, dopo aver piegato la schiena a raccogliere ortaggi per più di otto ore, pagati anche meno della miseria che veniva data a Satnam.

In questa di storia, però, c’è una aggravante nella flagranza dei reati che saranno stabiliti dalla magistratura: dallo sfruttamento della manodopera all’assunzione senza un contratto di lavoro fino all’omicidio colposo per non aver soccorso adeguatamente il trentunenne privato del braccio e lasciato ad agonizzare sulla porta di casa sua, dopo oltre due ore dall’incidente. Un tempo che è stata forse tra le premesse per il decorso fatale.

Ma l’aggravante peggiore è la totale indifferenza nei confronti della vita, dell’esistenza di un essere umano. Vale quattro euro il lavoro delle sue braccia quando sono attaccate al corpo e non vale più niente quando una macchina agricola gliene trancia una e diventa così, oltre ad inutile all’opera, anche un pericoloso testimone della criminale organizzazione della manovalanza nei comparti agricoli.

Tanto è il valore di uno schiavo moderno, a pochi passi dalle nostre città dove si festeggia il solstizio estivo, dove si va in vacanza, dove la vita degli altri scorre, seppure tra mille disagi, con più fortuna rispetto a quella dei migranti (e anche di molti italiani) che sono costretti non a lavori umili, ma all’umiliazione del lavoro, alla spersonalizzazione completa di sé stessi. Trattati con la gelida indifferenza di chi li considera diversi da sé stessi e li tratta come subumani.

Perché non si pensi di considerare il caso di Satnam soltanto come incidente-omicidio sul lavoro. Per quanto per primo Marx ci abbia ricordato più e più volte l’amoralità del capitalismo e del padronato, che svolge il suo ruolo di classe entro la struttura economica dominante, la componente sovrastrutturale del razzismo c’è o, se vogliamo essere ancora più precisi, si manifesta attraverso le dinamiche del rapporto tra datore di sfruttamento e sfruttato.

Non si può parlare di “datore di lavoro” là dove il lavoro è altro da sé stesso. Si devono utilizzare le parole giuste, soprattutto se offendono e indignano i sostenitori del mondo dell’impresa e, in questo frangente, di un caporalato che tutti a parole condannano e nei confronti del quale i governi hanno sempre fatto molto poco, nonché le amministrazioni regionali.

La crudeltà si associa al regime di utilizzo della forza-lavoro senza alcuno scrupolo, senza l’osservanza delle norme, in totale disprezzo per chi è curvo a raccogliere pomodori, insalate, carote o riempie cassette di agrumi. Questione economica e questione morale si fanno un tutt’uno e sono l’esatta rappresentazione di un modello liberista in cui i governi si sono riconosciuti, compreso ovviamente quello attuale. I poveri devono lavorare poveramente e non possono sperare in alcun modo di salire la scala sociale.

Nessuna possibilità di risparmio, al massimo solo quella della sopravvivenza. Davanti alle telecamere persino il padrone di Satnam accenna ipocritamente un briciolo di umanità: dice che nessuno dovrebbe morire sul lavoro. Perché, quello che faceva il trentunenne era lavoro? Lui e suo figlio avrebbero lavorato nei campi per quattro euro all’ora e nelle condizioni che dettavano ai loro braccianti?

Per questo la parola “padrone” è più attuale che mai, anche se si tenta di renderla obsoleta, affidandola alle rimembranze di un passato otto-novecentesco, obliandola nella rigorosa narrazione della modernità occidentale ammantata di liberalismo e di benessere che ne deriverebbe. Imprenditore suona meglio, certo, ma non mette al sicuro dall’essere impiegati in aziende in cui poi si viene sfruttati – certamente in modo differente rispetto al regime schiavistico cui Satnam e sua moglie erano sottoposti – e derubati della cassa Covid.

Padrone rende l’idea di ciò che davvero sono questi caporali che creano tutte le condizioni per andare ben oltre il concetto di “incidente” o “morte sul lavoro“. Il giovane indiano non ha avuto un incidente e non è nemmeno morto sul posto di lavoro. È stato messo nelle condizioni di fare una bruttissima fine, ed il fatto che l’abbia fatta non è ascrivibile all’imprudenza o all’imperizia. Se è successo a lui, poteva accadere a chiunque altro.

Non è fatalità, ma una vera e propria congiuntura di fatti, di circostanze che nel loro estremo punto di sintesi portano al peggio. Chi, anche solo indirettamente, è responsabile di questa politica antilavorativa, disumana, antisindacale e illegale, non diviene ma è già in partenza il presupposto vivente di un accanimento nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori che opera nel senso esclusivo del profitto ai massimi termini.

Quella cinicissima crudeltà che ha indotto i padroni a caricare il corpo di Satnam su un camioncino e abbandonare lui e il suo braccio tranciato sull’uscio dell’abitazione, è parte di un sistema di potere che va indagato nella sua complessità, proprio perché non si tratta di casi isolati, di fatalità, ma di un regime di sfruttamento becero che cresce all’ombra dell’illegalità, dell’immoralità, sotto gli occhi di tutti.

Nelle piane agricole, alla sera, i migranti si incamminano o tornano su malferme biciclette verso i quartieri dormitorio. A volte, anzi spesso, verso dei sottoponti dove dormono all’addiaccio, dove l’igiene è assente, dove il degrado morale si somma a quello fisico e mentale. Tanta è la disperazione di queste persone che la miserrima paga che ricevono è superiore alla tragedia delle loro esistenze.

Fate conto quattro euro all’ora e pensate se la vostra vita valesse di meno ancora di quello… Si battono contro tutto ciò i sindacati, sia confederali sia di base. Si battono le associazioni di volontariato laiche e religiose. Si battono comunità solidali che non rimangono indifferenti alla molestia del caporalato, all’insensibilità di cui si nutre nel nome del guadagno sulle vinte spente di altri esseri viventi. Ma lo Stato, le Regioni, le amministrazioni locali dove sono?

Se Satnam si fosse chiamato Federico, se avesse avuto la pelle bianca, se fosse stato originario magari di Roma o di Napoli, non sarebbe stato così completamente lasciato in balia delle proprie atroci sofferenze, gettato come un pupazzo ormai rotto, un giocattolo inutilizzabile di cui ci si sbarazza anche con una certa rabbia e un certo fastidio.

Se fosse stato italiano qualche remora in più persino i padroni caporali l’avrebbero avuta. Ma era un immigrato, per giunta forse senza un regolare permesso di soggiorno: quindi ricattabile infinitamente per una colpa che gli ha affibbiato un mondo in cui la legge del profitto sovraintende tutte le altre.

I dati dell’Osservatorio “Placido Rizzotto” (della FLAI CGIL) sono impietosi: i migranti lavorano nei campi del Mezzogiorno d’Italia per oltre dodici, tredici ore, dopo aver fatto chilometri e chilometri a piedi o in bicicletta per raggiungere i luoghi di sfruttamento della loro mano d’opera. I padroni non sono sempre di origine meridionale o del luogo. Vi sono anche sfruttatori settentrionali che hanno fondi, piccole aziende in cui una parte di lavoro è regolare è un’altra parte è rigorosamente extra legem.

In questa nostra Italia che spende in armi più di quanto spenda nella sanità, che investe nelle grandi opere più di quanto faccia per il disagio sociale, che tutela i profitti e le grandi rendite finanziarie piuttosto che il mondo del lavoro e dello sfruttamento, l’ammontare dell’economia cosiddetta “non osservata” è di circa 208 miliardi di euro. Di questi, circa cinque miliardi sono il frutto sanguinoso ed amaro del caporalato.

Sempre riferendoci ai dati dell’Osservatorio “Rizzotto” della CGIL (dati che si fermano al 2018), sono circa mezzo milione le lavoratrici e i lavoratori sottoposti al regime schiavistico delle agro-mafie nel Sud del Paese. Del totale di coloro che sono impiegati nel settore agricolo, coloro che vengono fatti stare in un regime di irregolarità permanente ammontano circa al 39% delle maestranze.

Quasi il quaranta per cento di chi curva la schiena nei campi, dunque, lo fa senza uno straccio di contratto in mano, senza nessuna garanzia e tutela sul suo rapporto di lavoro, sulla sua salute e sulla vita. Tra questi, Satnam e sua moglie. Su un milione di lavoratori agricoli, quelli assunti regolarmente sono appena il 28% (meno di trecentomila); molti altri sono impiegati con retribuzioni non sindacali o con rapporti informali.

La geografia del comparto lavorativo agro-alimentare è una selva oscura che conduce davvero ad un inferno di prestazioni ultrasottopagate, ad un mondo dove la Legge è sullo sfondo di una società intrisa di malaffare, di spietata disumanizzazione dei rapporti, di assoluta inosservanza di qualunque forma di empatia.

La declamazione tronfia delle eccellenze alimentari della nostra Italia, anche tra una partita di calcio ed un altra, mentre le pubblicità televisive magnificano i prodotti della terra, dovrebbe prima di tutto fare i conti con una molteplicità di concause che determinano la vita tragica prima e la morte orribile poi di donne e uomini la cui unica colpa è essere nati in nazioni rese povere da secoli e secoli di conquiste europee ed occidentali.

Dietro ad ogni ortaggio del supermercato può nascondersi questo mondo dei vivi che, ricurvi sui filari di piante, sembrano le ombre di una morte che li attende ad ogni passo che fanno.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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