Le operaie di una fabbrica di bigiotteria di Montreuil scoprono che Fantine ha una figlia, avuta fuori dal matrimonio, e che l’ha affidata a una coppia di osti, a cui manda regolarmente una parte del proprio stipendio affinché si prendano cura della bambina. Quelle donne potrebbero far finta di nulla, fingere di non aver mai sentito quella notizia, invece denunciano la giovane, che proprio per questo sarà licenziata, sarà costretta a prostituirsi e infine morirà. Perché lo fanno? Probabilmente per paura, per nascondere un qualche loro segreto altrettanto pericoloso, o forse per invidia per quella collega che avevano giudicato fino allora irreprensibile, nonostante gli inviti più che espliciti del laido capoturno, ma soprattutto perché pensano che la sfortuna di Fantine potrebbe essere la loro fortuna. Non c’è nessuna solidarietà in quelle donne, anche se non costerebbe loro molto un gesto di aiuto, ma quando si ha poco, si ha molta paura di perderlo. Le uniche che mostrano una qualche forma di pietà per lei sono le prostitute, le donne che hanno ormai perduto tutto, e che riconoscono la loro storia in quella di Fantine.
Si tratta, come probabilmente ricorderete, di una delle prime scene del musical Les Misérables, tratto dal grande romanzo di Victor Hugo. Ho raccontato questa storia perché la poesia spesso è più vera della verità. Essere solidali con gli altri non è sempre facile, costa fatica: è qualcosa che non ci viene naturale. E quindi quando succede lo consideriamo una notizia e quando la solidarietà non scatta, come tra le operaie di Montreuil, non ci sorprendiamo più di tanto. Se siamo onesti con noi stessi dobbiamo dirci che sappiamo bene cosa dovremmo fare, ma non cosa effettivamente faremmo. Quante volte abbiamo visto qualcosa del genere durante una crisi aziendale: se quella persona verrà licenziata, anche ingiustamente, sarà più facile che io non lo sia. E troviamo subito ottime giustificazioni per questo atteggiamento non proprio altruista: ho bisogno di questo lavoro, viviamo con questo mio unico stipendio, meglio che succeda a lei che a me.
Giorni fa a Grassobio, vicino a Bergamo, è successa una cosa diversa. La Fantine di questa storia, che lavora da quindici anni alla Reggiani Macchine, una storica azienda della città che ora è di proprietà di una multinazionale americana, ha due figli, uno nato da pochi mesi. Fantine ha avuto il diritto di stare a casa per la maternità – qualcosa è cambiato dagli anni in cui era successa l’altra vicenda – ma quando è tornata a lavorare non ha trovato il posto che aveva lasciato. L’azienda non ha fatto alcun tentativo di ricollocarla – intanto è passata una legge che rende più facile licenziare, un po’ come succedeva nelle fabbriche descritte da Hugo – e, passati pochi mesi, ha deciso di lasciarla semplicemente a casa. Siamo giustificati – curioso come una giustificazione la si trovi sempre – quella lavoratrice per noi è solo un costo, non sappiamo proprio cosa farle fare. Qualcosa però è scattato tra i colleghi di Fantine: tutti i 230 lavoratori della Reggiani, donne e uomini, hanno proclamato uno sciopero immediato e improvviso, per chiedere il ritiro di quel licenziamento ingiusto.
Non sappiamo se questa protesta salverà Fantine, ma certo ora sarà più difficile per quell’azienda andare avanti. Certo quella legge ingiusta è ancora in vigore, e i padroni della Reggiani troveranno un giudice che darà loro ragione, e magari un tutore dell’ordine ligio come Javert per farla rispettare. Ma Fantine non è sola e questo cambia in maniera radicale la storia.
Fantine è stata licenziata perché è una donna, perché è una donna che ha partorito da pochi mesi: magari qualcuno dei suoi colleghi per un momento avrà pensato che quel licenziamento poteva anche essere, per lui o per lei, una cosa positiva. Un uomo o una donna senza figli potevano pensare che se se questa fosse stata la linea dell’azienda si sarebbe salvato; o salvata. Invece hanno capito che noi ci salviamo solo insieme. In questa parola c’è una radice molto antica – risale al sanscrito e la troviamo in molte lingue antiche e moderne – che significa uguale. Stare insieme non significa solo stare con qualcuno, ma riconoscere che quel qualcuno è simile a te, è come te, che quel qualcuno in qualche modo sei tu. Lo hanno capito quei 230 lavoratori quando hanno deciso di scioperare, perché quel provvedimento ingiusto colpiva direttamente ciascuno di loro. Non stavano licenziando solo Fantine, ma stavano lasciando senza lavoro e senza stipendio ciascuno di loro. E quindi non stavano lottando solo per Fantine e i suoi figli, ma anche per loro e per i loro figli.
Come avrete capito io credo che ci sia una morale in questa storia. E spesso, come nelle favole degli antichi, la morale quando ce la raccontano può sembrarci banale, eppure ce la dimentichiamo sempre. Noi vinciamo solo insieme, solo quando riconosciamo gli altri come noi.
se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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