Le battute verso quel nostro compagno di classe più grasso e goffo degli altri, verso quella nostra compagna bruttina, erano una forma di bullismo? Credo di sì, anche se allora non eravamo ancora abituati a usare questa parola. E tutti ne siamo stati responsabili, perché, anche se non abbiamo mai fatto quelle battute, abbiamo ridacchiato ascoltandole, abbiamo ammirato chi le faceva, perché non ci siamo resi conto che ferivano quelle persone. D’altra parte da ragazzini si è particolarmente stupidi.

Certo allora non c’era la rete ad amplificare queste offese e la gran parte di esse son fortunatamente svanite nell’aria. Non ce ne ricordiamo più. Speriamo non le ricordino più neppure loro. E magari crescendo ci siamo innamorati di quella bambina bruttina, divenuta donna, e siamo diventati amici di quel bambino che, da grande, ci ha aiutato in un momento di difficoltà: per fortuna la vita è una cosa piuttosto complicata, che ci fa crescere.

Il fatto che abbiamo cominciato a parlare di bullismo ci ha fatto diventare tutti più consapevoli o è il segno che quel fenomeno è diventato più grave? Probabilmente sono vere entrambe le affermazioni.

Mi ha colpito una notizia letta in questi giorni. Durante una trasmissione televisiva diverse persone hanno scritto in rete dei messaggi offensivi rivolti alla giovane donna che la conduceva, perché, a loro dire, troppo grassa, e quindi non “degna” di apparire in televisione. Immagino che queste frasi violentemente offensive abbiano ferito Vanessa Incontrada, ma credo anche che sia abbastanza forte per non curarsene, per dimenticarle con un’alzata di spalle. Ma cosa può succedere a una persona che non è altrettanto forte? Che non gode, in forza della propria fama, di una solidarietà diffusa, come è avvenuto in questo caso?

Come eravamo responsabili da bambini, anche se non eravamo noi i bulli, anche ora da adulti, anche se continuiamo a non essere i bulli, siamo in qualche modo responsabili. Lo siamo, anche se non sorridiamo più per quelli grevi battute – spero che questo almeno non lo facciamo – perché noi abbiamo fatto così questa società. Perché questi bulli digitali sono figli nostri e abbiamo insegnato loro a non rispettare le altre persone, a ridere dei difetti degli altri, o peggio ad approfittarsi di quei difetti. Quella ragazzina è più brutta di mia figlia? Bene, farà più fatica a trovare un lavoro e la mia bambina avrà più possibilità di lei. Quel ragazzo è più grasso di mio figlio? Bene, avrà meno opportunità di lui. L’egoismo si insegna anche se non si esplicita.

Siamo responsabili – e siamo noi i bulli – perché non abbiamo loro spiegato che non esiste quell’unico tipo di bellezza che ci viene raccontato dalla pubblicità. E non abbiamo loro insegnato che è una forma di violenza costringere le persone a essere per sempre giovani, per sempre magre, per sempre belle, e soprattutto che le persone non si giudicano per come ci appaiono, ma per quello che sono. Non basta provare a spiegare quanto possa far male essere vittima di queste offese né serve vietare loro di usare la rete. Serve qualcosa di più e di meglio; serve che anche noi cambiamo.

 

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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