di Steven Gorelick – 12 luglio 2017

Un mio amico indiano racconta una storia riguardo all’aver guidato una vecchia Volkswagen Beetle dalla California alla Virginia durante il suo primo anno negli Stati Uniti. In una singolare tempesta di ghiaccio in Texas è finito fuori strada, lasciando l’auto col parabrezza rotto e portiere e parafanghi malamente ammaccati. Quando è arrivato in Virginia ha portato l’auto in una carrozzeria per una stima della riparazione. Il proprietario le ha dato un’occhiata è ha detto: “E’ irrecuperabile”. Il mio amico indiano è rimasto sconcertato: “Come può essere irrecuperabile? L’ho appena guidata fin qui dal Texas!”

La confusione del mio amico era comprensibile. Anche se “irrecuperabile” suona come una specie di termine meccanico, è in realtà un termine economico: se il costo della riparazione è superiore a quanto varrà l’auto dopo, la sola scelta economica “razionale” e portarla dallo sfasciacarrozze e comprarne un’altra.

Nelle “società a perdere” del mondo industrializzato, questo è uno scenario sempre più comune: il costo di riparazione di stereo, elettrodomestici, utensili elettrici e apparecchi di alta tecnologia supera il prezzo di comprarne di nuovi. Tra i risultati di lungo termine ci sono crescenti pile di rifiuti elettronici, discariche che straripano e sprechi di risorse ed energia. E’ uno dei motivi per cui lo statunitense medio genera più del 70 per cento di rifiuti solidi in più rispetto al 1960. [1] E i rifiuti elettronici – i componenti più tossici degli scarti domestici – stanno aumentando quasi sette volte in più rispetto ad altre forme di rifiuti. Nonostante gli sforzi di riciclaggio, un numero di telefoni cellulari stimato in 140 milioni – contenenti metalli preziosi pari a 60 milioni di dollari in valore e una quantità di materiali tossici – sono gettati ogni anno nelle discariche statunitensi. [2]

Assieme a questi costi ambientali ci sono anche impatti economici. Non molto tempo fa la maggior parte delle cittadine statunitensi aveva calzolai, gioiellieri che aggiustavano orologi da polso e da tavolo, sarti che riparavano e modificavano vestiti e attività di riparazione che rimettevano a nuovo tostapane, televisioni, radio e dozzine di altri elettrodomestici casalinghi. Oggi la maggior parte di queste attività è scomparsa. “E’ un commercio moribondo”, ha detto il proprietario di un negozio di riparazione di elettrodomestici del New Hampshire. “Elettrodomestici di basso livello che si possono comprare per 200 o 300 dollari sono fondamentalmente apparecchi a perdere”. [3] La storia è simile per altre attività di riparazione: negli anni ’40, ad esempio, gli Stati Uniti ospitavano circa 60.000 calzolai, un numero ridottosi a meno di un decimo oggi. [4]

Un motivo di questa tendenza è la globalizzazione. Le imprese hanno delocalizzato le loro attività di fabbricazione a paesi a bassi salari, rendendo le merci artificialmente a basso prezzo quando vendute nei paesi a salari più elevati. Quando quelle merci devono essere riparate, non possono essere rispedite in Cina o in Bangladesh, devono essere riparate dove i salari sono più elevati e le riparazioni sono perciò più costose. Il mio amico è rimasto confuso riguardo alla condizione della sua auto perché in India c’è la situazione contraria: la manodopera è a basso costo mentre sono costose le merci importate e nessuno si sognerebbe di buttare un’auto che potrebbe essere riparata.

E’ allettante scartare il declino delle riparazioni in occidente come un danno collaterale – semplicemente un altro costo non intenzionale della globalizzazione – ma l’evidenza suggerisce che in realtà è una conseguenza intenzionale. Per comprendere il perché è utile guardare alle particolari necessità del capitale nell’economia della crescita globale, necessità che hanno determinato la creazione della cultura consumistica appena più di un secolo fa.

Quando la prima auto Modello T uscì dalla catena di montaggio di Henry Ford nel 1910, gli industriali compresero che la tecnica poteva essere applicata non solo alle auto ma a quasi ogni altro prodotto fabbricato, rendendo la produzione di massa possibile in dimensioni in precedenza inimmaginabili. Il potenziale di profitto era praticamente illimitato, ma c’era un inghippo: non aveva senso produrre milioni di articoli – non importa quanto a basso costo – se non c’erano abbastanza compratori per essi. E nella prima parte del ventesimo secolo la maggioranza della popolazione – classe lavoratrice, rurale e varia – aveva scarso reddito disponibile, una vasta gamma di imposte e valori che imponevano frugalità e autosufficienza. Il mercato di merci manifatturiere era largamente limitato alle classi media e alta, gruppi troppo piccoli per assorbire una produzione di massa a tutto gas.

La pubblicità fu il primo mezzo cui l’industria ricorse per aumentare i consumi affinché corrispondessero all’enorme balzo della produzione. Anche se le pubblicità semplici erano in circolazione da generazioni non erano certo sofisticate come gli annunci nascosti di oggi. Attingendo alle idee di Freud la nuova pubblicità si concentrò meno sul prodotto e più sulla vanità e le insicurezze dei potenziali consumatori. Come segnala lo storico Stuart Ewen, la pubblicità contribuì a sostituire i consolidati valori statunitensi che sottolineavano la parsimonia con nuove norme basate su consumi cospicui. La pubblicità, a quel punto di portata nazionale, ha anche contribuito a cancellare differenze regionali ed etniche tra le diverse popolazioni locali degli Stati Uniti, imponendo in tal modo gusti di massa adatti alla produzione di massa. Mediante tecniche di commercializzazione sempre più sofisticate ed efficaci, dice Ewen, “gli eccessi  sostituirono la parsimonia come valore sociale” e intere popolazioni furono investite di “un desiderio psichico di consumare”. [5]

In altri termini, era nata la cultura consumistica moderna, non come risposta all’avidità umana innata o alla domanda dei clienti, bensì alle necessità del capitale industriale.

Nel corso della Grande Depressione i consumi non riuscirono a tenere il passo con la produzione. In un circolo vizioso, la sovrapproduzione portò a fabbriche chiuse, lavoratori persero il posto e la domanda di produzione industriale scese ulteriormente. In tale crisi del capitalismo, nemmeno la pubblicità più ingegnosa avrebbe potuto stimolare i consumi in misura sufficiente a rompere il circolo.

Nel 1932 una nuova soluzione fu proposta da un mediatore immobiliare di Bernard London. Il suo opuscolo “Por fine alla depressione mediante l’obsolescenza programmata” plaudiva agli atteggiamenti di consumatori che la pubblicità aveva creato durante gli anni ’20, un periodo nel quale “il popolo statunitense non aspettava fino a quando da qualsiasi bene fosse ricavata l’ultima briciola di utilità. Sostituiva gli articoli vecchi con nuovi per motivi di moda e di modernità. Rinunciava alle case e alle auto vecchie ben prima che fossero logore” [6]. Al fine di aggirare i valori di parsimonia e frugalità che si erano riaffacciati durante la Depressione, London sosteneva che il governo doveva “registrare l’obsolescenza dei beni capitali e di consumo all’epoca della loro produzione … Dopo che il tempo assegnato era scaduto, quelle cose sarebbero legalmente ‘morte’ e sarebbero controllate dall’agenzia debitamente nominata dal governo e distrutte” [7]. La necessità di sostituire tali prodotti ‘morti’ avrebbe assicurato che la domanda sarebbe rimasta per sempre alta e che il pubblico – indipendentemente da quanto parsimonioso o soddisfatto dai suoi beni materiali – avrebbe continuato a consumare.

L’idea di London non attecchì immediatamente e la Depressione alla fine terminò quando le fabbriche inattive furono convertite alla produzione di armi e munizioni per la seconda guerra mondiale. Ma il concetto di obsolescenza programmata non scomparve. Dopo la guerra il suo maggior promotore fu il progettista industriale Brooks Stevens, che la considerò non come un programma governativo bensì come una caratteristica integrale della progettazione e della commercializzazione. “Diversamente dall’approccio europeo del passato che cercava di produrre il bene assolutamente migliore e farlo durare per sempre”, disse, “l’approccio negli Stati Uniti consiste nel rendere il consumatore statunitense insoddisfatto del prodotto che gli è piaciuto usare e … [e fargli voler] ottenere il nuovissimo prodotto con l’aspetto più nuovo possibile” [8].

La strategia di Brooks fu abbracciata da tutto il mondo industriale ed è tuttora in vigore oggi. Accoppiata a una pubblicità mirata a rendere i consumatori inadeguati e insicuri se non hanno il prodotto più recente o gli abiti alla moda al momento, l’enigma del parallelismo dei consumi con una produzione sempre crescente è stato risolto.

La costante sostituzione di merci altrimenti utili per nessun altro motivo che la “modernità” è più chiara all’apice dell’industria dell’abbigliamento, significativamente nota come industria della “moda”. Grazie al costante fuoco di sbarramento di messaggi mediatici e pubblicitari, persino i ragazzi più giovani temono di subire l’ostracismo se indossano abiti che non sono “fighi” abbastanza. Le donne, in particolare, sono state indotte a sentire che saranno sottovalutare se i loro abiti non sono sufficientemente all’ultimo grido. Non è solo la pubblicità che trasmette questi messaggi. Una delle trame di un episodio della serie televisiva degli anni ’90 “Seinfeld” aveva per protagonista una donna che commette il passo falso di indossare in diverse occasioni lo stesso abito, resa oggetto di una quantità di risate preregistrate. [9]

L’obsolescenza è stata una forza particolarmente potente nel mondo dell’alta tecnologia, dove l’arco di vita limitato delle apparecchiature digitali è spesso la conseguenza più dell’”innovazione” che del malfunzionamento. Con la potenza di calcolo raddoppia ogni 18 mesi per molti decenni (un fenomeno così affidabile da essere noto come legge di Moore) i prodotti digitale diventano rapidamente obsoleti: come ha scritto uno scrittore di tecnologia: “in due anni il vostro nuovo smartphone potrebbe essere poco più che un fermacarte” [10]. Con i pubblicitari che bombardano il pubblico di annunci  che affermano che questa generazione di smartphone è la definitiva per velocità e funzionalità, il tipico utente di cellulari acquista un telefono nuovo ogni 21 mesi [11]. Superfluo dirlo: questo è grandioso per l’ultima riga del bilancio delle imprese dell’alta tecnologia, ma tremendo per l’ambiente.

L’innovazione può essere il mezzo principale attraverso il quale i prodotti di alta tecnologia sono resi obsoleti, ma i produttori non disdegnano l’uso di altri metodi. La Apple, ad esempio, rende intenzionalmente i propri prodotti difficili da riparare, salvo per la stessa Apple, in parte rifiutando di fornire informazioni sulle riparazioni riguardo ai propri prodotti. Poiché il costo della riparazione in fabbrica spesso si avvicina al costo di un prodotto nuovo, la Apple si assicura un sano flusso di entrate indipendentemente da ciò che il cliente decide di fare.

La Apple si è spinta anche oltre. In una causa collettiva contro la società è stato rivelato che gli iPhone 6 della società sono programmati per smettere di funzionare – in gergo “murati” – quando gli utenti li fanno riparare in laboratori non autorizzati (e meno costosi). “Non hanno mai rivelato che il vostro telefono potrebbe essere murato dopo riparazioni semplici”, ha detto un avvocato dei querelanti. “La Apple aveva intenzione … di forzare tutti i suoi consumatori a comprare prodotti nuovi semplicemente perché si recavano in un laboratorio di riparazione” [12].

In reazione a questa furfanteria dell’industria un certo numero di stati ha cercato di approvare leggi sulla “riparazione equa” che aiuterebbero i laboratori indipendenti a ottenere le parti e gli strumenti diagnostici di cui hanno bisogno, nonché gli schemi di come i dispositivi sono assemblati. Una legge simile è già stata approvata dal Massachusetts per agevolare i riparatori di auto indipendenti e agricoltori del Nebraska stanno lavorando per far approvare una legge simile relativa alle macchine agricole. Ma, eccettuata la legge del Massachusetts, una pesante attività di pressione dei fabbricanti – dalla Apple all’IBM a gigante delle macchine agricole John Deere – ha sinora ostacolato l’approvazione di leggi sul diritto alla riparazione. [13]

Dalla base un’altra reazione è stata l’ascesa di “caffè di riparazione” non a fini di lucro. Il primo è stato organizzato ad Amsterdam nel 2009 e oggi ce ne sono più di 1.300 altri in tutto il mondo, ciascuno con strumenti e materiali per aiutare le persone ad aggiustare abiti, mobili, elettrodomestici, biciclette, vasellame e altro, assieme a volontari specializzati che possono offrire aiuto, se necessario [14]. Queste iniziative locali non solo rafforzano i valori della parsimonia e dell’autonomia intenzionalmente erosi dal consumismo; collegano le persone con le loro comunità, ridimensionano l’uso di risorse ed energia scarse e riducono la quantità di materiali tossici gettati nelle discariche.

A un livello più sistemico c’è un urgente bisogno di mettere le redini al potere dell’industria ridisciplinando il commercio e la finanza. Trattati di liberalizzazione del “libero scambio” hanno dato alle imprese la capacità di localizzare le loro attività dovunque nel mondo, contribuendo ai prezzi distorti che rendono più economico comprare prodotti nuovi piuttosto che riparare quelli vecchi. Questi trattati rendono anche più facile per le imprese penetrare non solo le economie del Sud globale, ma anche la psiche delle loro popolazioni, contribuendo a trasformare miliardi di altre persone autonome in consumatori insicuri avidi dei beni standardizzati, prodotti in massa dall’industria. La diffusione della cultura consumistica può aiutare il capitale globale a soddisfare la sua necessità di una crescita infinita, ma certamente distruggerà la biosfera; il nostro paese non è in grado di sostenere sette miliardi di persone che consumano al ritmo folle del nostro mondo “sviluppato”, e tuttavia tale obiettivo è implicito nella logica dell’economia globale.

Dobbiamo anche opporci – con le parole e gli atti – alle forze del consumismo nelle nostre stesse comunità. La cultura consumistica globale non è solo motore del cambiamento climatico, dell’estinzione di specie, di zone oceaniche morte e di molte altre aggressioni alla biosfera; alla fine non soddisfa reali bisogni umani. Il prezzo della cultura consumistica non si misura in beni a buon prezzo che riempiono le nostre case e poi, sin troppo presto, la discarica più vicina. Il suo costo reale è misurato in termini di patologie alimentari, epidemie di depressione, accresciuta conflittualità sociale e tassi crescenti di dipendenza, non solo dagli oppiacei, ma dagli ‘acquisti’, dai videogiochi e da Internet.

E’ ora di concepire – e compiere passi per creare – un’economia che non distrugga le persone e il pianeta solo per soddisfare gli imperativi di crescita del capitale globale.

NOTE:

[1] EPA Report on the Environment, Municipal Solid Wastehttps://cfpub.epa.gov/roe/indicator_pdf.cfm?i=53; Center for Sustainable Systems, “Municipal Solid Waste Factsheet,” http://css.snre.umich.edu/factsheets/municipal-solid-waste-factsheet

[2] National Public Radio, “The Continent that Contributes the Most to E-Waste is…”, January 26, 2017. http://www.npr.org/sections/goatsandsoda/2017/01/26/511612133/the-continent-that-contributes-the-most-to-e-waste-is

[3] “Irreparable Damage”, Washington Times, Jan 9, 2007. http://www.washingtontimes.com/news/2007/jan/9/20070109-121637-4917r/

[4] Morris, Natalie, “Fewer shoe repair shops mean business for those remaining”, Wall Street Journal, March 5, 2012. http://www.sj-r.com/x1644228326/; “Shoe Repair in the US: Market Research Report”, IBIS World, Apr 2017, https://www.ibisworld.com/industry-trends/market-research-reports/other-services-except-public-administration/repair-maintenance/shoe-repair.html

[5] Ewen, Stuart, Captains of Consciousness: Advertising and the Social Roots of the Consumer Culture(New York: McGraw-Hill, 1976).

[6] London, Bernard, 1932, “Ending the Depression Through Planned Obsolescence”. https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/2/27/London_(1932)_Ending_the_depression_through_planned_obsolescence.pdf

[7] Ibid.

[8]  Pyramids of Waste: The Light Bulb Conspiracy, 2010, a documentary film by Cosima Dannoritzer. Viewed at FilmsforAction.org. http://www.filmsforaction.org/watch/pyramids-of-waste-2010/

[9] Seinfeld, “The Seven”, episode 13, season seven. Aired February 1, 1996.

[10] Walton, Andy, “Life Expectancy of a Smartphone”, Houston Chroniclehttp://smallbusiness.chron.com/life-expectancy-smartphone-62979.html

[11] ibid.

[12] Beres, Damon, and Andy Campbell, “Apple is Fighting a Secret War to Keep You from Repairing Your Phone”, Huffington Post, June 9, 2016. http://www.huffingtonpost.com/entry/apple-right-to-repair_us_5755a6b4e4b0ed593f14fdea

[13] Solon, Olivia, “A Right to Repair: Why Nebraska Farmers are Taking on John Deere and Apple”, The Guardian, March 6, 2017, https://www.theguardian.com/environment/2017/mar/06/nebraska-farmers-right-to-repair-john-deere-apple. Beres, Damon, “Big Tech Squashes New York’s ‘Right to Repair’ Bill”, Huffington Post, June 17, 2016. http://www.huffingtonpost.com/entry/apple-right-to-repair_us_5755a6b4e4b0ed593f14fdea

[14] https://repaircafe.org/en/about/

 

Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/our-obsolescent-economy/

Originale: Economics of Happiness

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2017 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.

 

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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