di TOMMASO RODANO – «Da nord, al centro fino al sud: ovunque discariche, tonnellate interrate, quasi sempre tossiche, anche gettate alla luce del sole o coperte senza garanzie. È il disastro ambientale intorno a noi». il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2017 (p.d.)
FOGGIA, 250 MILA TONNELLATE
DI VERGOGNA
di Tommaso Rodano
L’accoglienza è da film splatter: sul lato della strada che sale fino alla discarica di Giardinetto c’è il corpo di un cane morto. Bianco, in putrefazione: dev’essere lì da giorni. Siamo a 20 chilometri da Foggia, tra le pianure della Capitanata. All’orizzonte si vedono le cime bianche dei Dauni; alle spalle, in lontananza, c’è il mare del Gargano. Ma il comune più vicino, Troia, non compare nei depliant turistici. Un territorio che pare anonimo, marginale, ma porta una dote tremenda: 250 mila tonnellate di rifiuti industriali, in buona parte tossici. Sono nascosti sotto terra e abbandonati in superficie, in due file di capannoni fatiscenti. Giardinetto è una terra dei fuochi in miniatura su uno spazio di 70 ettari. Lo scenario è immobile dal 1999: sono passati quasi 18 anni.
La strada sterrata che porta alla discarica è circondata da colline innaturali, opera dell’uomo: sono gonfie di laterizi e scarti di materiale edile. Nessuna sbarra, nessun cancello chiuso, nessun segnale di pericolo, si arriva senza impedimenti fino al piazzale su cui poggiano i fabbricati.Nel primo ci sono – letteralmente – montagne di rifiuti industriali in polvere. Il deposito è sommerso da una sostanza fangosa e scura, dalle sfumature verdastre e blu. Sulla superficie qualche impronta umana e quelle delle zampe di un animali; in cima al più alto dei colli neri c’è uno sgabello abbandonato, come se qualcuno l’avesse piazzato lì per riposarsi dopo il trekking tra i veleni.
Nella seconda rimessa ci sono centinaia di balle di rifiuti accatastate l’una sopra l’altra. La maggior parte dei sacchi sono sfibrati o squarciati. Sopra c’è la scritta “1000 kg”, su alcuni si legge “German”o“Korea”. Dentro, ancora sostanze granulose e scure. I vetri dei capannoni sono rotti, i soffitti sono a pezzi, le lastre d’amianto – per non farsi mancare nulla – sono spezzate sul pavimento, tra le pareti ci sono spazi aperti. In cima alla collina, poi, svettano le pale eoliche: nelle giornate di vento queste polveri volano dappertutto. Quando piove si mescolano all’acqua, i canali di scolo le portano a valle, scendono fino al fiume Cervaro.
Di cosa parliamo? Fanghi, ceneri di combustione, residui di lavorazione. Questo piccolo territorio ha accolto,a sua insaputa, i rifiuti velenosi delle industrie del Nord, e probabilmente anche estere. Il merito è della Iao srl, “Industria Ambientale Organizzata”. L’azienda apparteneva a una facoltosa famiglia di imprenditori locali, i Fantini, poi affiancata da un industriale vicentino, Giuseppe De Munari, considerato il deus ex machina del business immondizia.
Nel 1999, quando la fabbrica viene sequestrata per la prima volta, il risultato della loro attività è sotto gli occhi sbigottiti dei carabinieri di Bari: i materiali non venivano sottoposti ad alcun tipo di ciclo di recupero; erano semplicemente stoccati nei capannoni o adagiati all’aperto, sullo spiazzo. Qualche anno dopo si scoprirà che il peggio era invisibile agli occhi: la maggior parte dell’immondizia era stata nascosta sotto terra.
Nel 2010 il procuratore di Lucera (Fg), Pasquale De Luca – ascoltato dalla commissione parlamentare sul traffico illecito dei rifiuti – l’ha definita la “Gomorra” del foggiano: “la realtà supera ogni fantasia proprio come nel libro di Saviano e nel film: la quantità di rifiuti depositati nel sottosuolo è stata stimata dal nostro consulente tecnico (…) in circa 250 mila tonnellate. (…) Ogni camion trasporta due o tre tonnellate al massimo, quindi bisogna fare i calcoli di quante migliaia di mezzi sono passati e hanno trasportato questi rifiuti pericolosissimi, che sono fanghi, materiali misti a cemento, a benzene, a cromo esavalente, ad amianto, a vanadio, a idrocarburi e a metalli pesanti, tutti cancerogeni”.
Lo scempio è rimasto completamente impunito. Nel primo processo, anno 2004, De Munari e soci vengono condannati in primo grado, ma la sentenza è annullata in appello dalla corte di Bari. “Per un vizio di forma: – spiega De Luca – l’imputato principale era sempre malato”.
Il processo ricomincia da capo, ma gli imputati vengono salvati dalla prescrizione. Anche perché il tribunale di Lucera non ravvisa l’aggravante di “disastro ambientale”: “la barriera idraulica costituita da argille”, si legge nella sentenza del 2015, avrebbe protetto le falde acquifere. Risultato? Liberi tutti. L’azienda rientra in possesso dell’area, ma non ha le risorse per bonificarla. Il comune di Troia neppure. L’intervento potrebbe costare decine di milioni di euro.
È tutto immobile. Per le famiglie di Giardinetto è l’ultimo schiaffo. Il “disagio sanitario” e i “troppi tumori” hanno stimolato inchieste giornalistiche e interrogazioni parlamentari, ma nemmeno uno studio epidemiologico. In pochi chiedono ancora giustizia, come il comitato “Salute e Territorio” – stremato dalle battaglie perse – o il fotografo Giovanni Rinaldi, che gira come un cane sciolto con la sua reflex per testimoniare le violenze subìte dalla sua terra. Gli agricoltori preferiscono il silenzio, per paura di essere danneggiati. Quasi tutti si arrendono all’oblio.
LA POLVERE RADIOATTIVA
NELLA TOSCANA DEI FUOCHI
di Ferruccio Sansa
In questa terra qui ci puoi mettere le patate”, avrebbero detto agli agricoltori. Sì, era terra, ma radioattiva. Fino a 60 volte i livelli medi. Si chiama Polverino 500 mesh ed è lo scarto dei lavori di taglio e finitura dei metalli. Contiene piombo, rame, nichel e cromo, e proviene da rocce vulcaniche o effusive che hanno un’alta radioattività naturale. E adesso potrebbe essere finita nella terra dei campi, nei muri delle case, nella sabbia di torrenti e spiagge. Una storia lunga quella del Polverino che, secondo un investigatore, “rischia di svelare una terra dei fuochi nel cuore della Toscana”. Una vicenda dove, a leggere le intercettazioni, le strade dei rifiuti intrecciano quelle della politica. In particolare del Pd locale.
Adesso è in mano al pm Giovanni Arena della Direzione Distrettuale Antimafia di Genova. Ma la storia comincia altrove e incrocia indagini diverse, tra Aulla (ai confini tra Toscana e Liguria) e Vaglia, a nord di Firenze. Già, il centro della questione è la cava di calce di Paterno, a Vaglia, poi trasformata in discarica (sequestrata nell’estate scorsa). Qui dove, ha raccontato Franca Selvatici su Repubblica, negli anni sono confluiti i fanghi delle gallerie del Tav toscano, gli scarti tossici delle concerie di Santa Croce e quelli dello stabilimento Solvay di Rosignano. Poi pneumatici e scarti dell’edilizia contenenti amianto. Ma il guaio è soprattutto un altro: il polverino, che da Aulla sarebbe stato smaltito a Vaglia. E in giro per l’Italia.
Cominciamo appunto da Vaglia. Qui nel 2013 sono stati depositati anche 1.300 big bags (grandi sacchi, per dirla all’italiana) di questa sabbia finissima. “Quanta roba c’è costì?”, chiede il gestore della discarica al telefono. E da Aulla gli rispondono: “Cinquanta viaggi… 1.500 tonnellate”.
Ma di che cosa parlano i protagonisti dell’intercettazione? L’anno scorso è stata disposta un’analisi del contenuto dei sacchi che da Aulla sono arrivati a Vaglia. Gli esperti dell’Università di Pisa con quelli dell’Arpat hanno misurato una radioattività fino a 60 volte superiore alla media della discarica. Superiore perfino ai limiti fissati per le radiografie. L’inquinamento potrebbe essere finito nelle falde acquifere, il torrente Carzola scorre a pochi metri. Ecco allora le indagini epidemiologiche disposte sugli abitanti: le prime in linea con i livelli medi toscani (salvo per il tumore al seno), le seconde con livelli di mortalità doppi rispetto alla norma (ma bisogna considerare che le persone decedute erano anche fumatori). Ma c’è un altro punto essenziale: a Vaglia – secondo gli investigatori – i rifiuti come il polverino sarebbero stati mischiati con la calce destinata all’edilizia. Ha raccontato Salvatore Resia, dipendente della discarica: “Mi ricordo che venivano portati nel capannone o nello stabilimento della calce alcuni carichi di fanghi provenienti dalle concerie, che emanavano un odore nauseabondo. Questi fanghi venivano lavorati con la calce o il cemento… È andata avanti per circa un anno, poi i nostri clienti si sono lamentati perché i prodotti ottenuti con questo procedimento non erano di buona qualità e avevano un odore terribile. Abbiamo perso molti clienti”.
Ancora una volta le intercettazioni rivelano che cosa si voleva fare con il polverino. C’era un imprenditore che aveva in animo di utilizzarlo per i ripristini ambientali e addirittura confidava di averlo ceduto a un agricoltore: “Una parte dei sacconi di polverino – annotano gli investigatori – sono già stati allontanati, in quanto ceduti a una persona che li avrebbe utilizzati per spanderli su un terreno agricolo”. All’ignaro acquirente sarebbero state decantate le qualità della terra dicendo: “Questa qui puoi metterci le patate”. Ci sarebbe poi un’azienda piemontese dove il polverino veniva mescolato perprodurre la sabbia umida che poi veniva venduta. Per gli investigatori “diffondendo in maniera incontrollata il rifiuto sul territorio”. Non basta: c’era chi aveva in animo di rifilarlo a Libia, Iran e Iraq, di usarlo come zavorra per le navi o contrappeso per le gru.
Le intercettazioni delle inchieste rivelano anche la presenza della politica dietro all’affare polverino. Il 21 dicembre 2013 ecco al telefono Fabio Pieri (al tempo sindaco Pd di Vaglia, non coinvolto nell’inchiesta sul polverino) con l’imprenditore che gestiva la cava e l’ha trasformata in discarica. Parlano di Leonardo Borchi, ex comandante dei vigili urbani che ha intenzione di candidarsi alle primarie del centrosinistra. E che si è schierato contro la discarica. “Se passa lui, Vaglia può chiudere”, si lascia scappare il gestore della discarica. Pieri sbotta: “Bisogna lavorare perché nun lo faccia lui”. Ma nel 2014 Borchi diventa sindaco.
Sono diverse ormai le inchieste sulla discarica di Paterno. A novembre i gestori della ex cava ed ex fornace sono stati condannati in primo grado per abbandono di rifiuti e omessa bonifica. C’è poi un secondo fascicolo del pm fiorentino Luigi Bocciolini dove si parla di una discarica non autorizzata di rifiuti anche pericolosi. Ma soprattutto c’è l’inchiesta per traffico di rifiuti: è in mano ai pm genovesi perché lo stabilimento da cui è partito il polverino era ad Aulla.
PFAS, IL VELENO INVISIBILE
CHE FA AMMALARE IL VENETO
di Andrea Tornago
Non ha odore né colore. Si disperde nell’acqua senza lasciare traccia e una volta entrato nell’organismo agisce silenzioso per anni. Il veleno invisibile che ha contaminato il Veneto, dall’acronimo impronunciabile Pfas (sostanze perfluoro alchiliche), comincia a fare davvero paura.
Un recente studio della Regione Veneto sui composti chimici prodotti per decenni da una fabbrica vicentina, usati per impermeabilizzare il fondo delle pentole e i tessuti, ha dato corpo a uno dei peggiori incubi di ogni popolazione esposta: rischio aumentato di malattie per le donne in gravidanza, problemi per i nuovi nati, tra cui mutazioni cromosomiche. L’allarme è contenuto in un rapporto del 29 settembre scorso del registro nascita del Coordinamento malattie rare della Regione Veneto, reso noto solo pochi giorni fa dalle autorità sanitarie.
Nella “zona rossa” a maggior contaminazione, un’area di ventuno comuni in gran parte nella valle vicentina del Chiampo, i tecnici della Regione hanno riscontrato tra il 2003 e il 2015 “l’incremento della preeclampsia, del diabete gestazionale, dei nati con peso molto basso alla nascita, dei nati Sga (piccoli per l’età gestazionale, ndr) e di alcune malformazioni maggiori, tra cui anomalie del sistema nervoso, del sistema circolatorio e cromosomiche”. L’impatto elle sostanze che hanno contaminato più di 250 mila persone nelle province di Verona, Vicenza e Padova, di cui almeno 60 mila maggiormente esposte, arriva a toccare la salute delle nuove generazioni.
Il rischio aumentato di patologie come la preeclamspia, che provoca ipertensione ed altri gravi scompensi nel corso della gravidanza e può mettere a rischio la vita della madre e del bambino, e di anomalie nei neonati (in alcuni casi quasi doppio rispetto al resto della regione), ha fatto saltare sulla sedia il governatore leghista del Veneto, Luca Zaia.
In una nervosa riunione di giunta, riportata dai giornali locali, Zaia si sarebbe infuriato per non aver ricevuto subito sul suo tavolo i risultati degli studi sanitari citati in una relazione del direttore generale della sanità veneta, Domenico Mantoan, che lo scorso 21 ottobre ha chiesto l’adozione di provvedimenti urgenti per la salute della popolazione “volti alla rimozione della fonte della contaminazione” ipotizzando addirittura “lo spostamento della sede produttiva della ditta”. In quel documento, Mantoan non faceva riferimento solo al rapporto sulle gravidanze. Un altro rapporto del servizio epidemiologico della Regione aveva riscontrato, nel giugno del 2016, un “moderato ma significativo eccesso di mortalità” per le cardiopatie ischemiche e cerebrovascolari, per il diabete mellito e per l’Alzheimer nelle donne. Confermando i risultati di un precedente studio dell’Enea e dell’Isde, l’Associazione medici per l’ambiente, secondo cui negli ultimi trent’anni in Veneto ci sarebbero stati “1260 morti in più” delle attese nelle aree contaminate.
Nellea aree inquinate c’è preoccupazione, ma nessuno parla. Al coordinamento dei comitati “Acqua libera dai Pfas”, da quando sono emersi i nuovi dati degli studi regionali, non si è rivolto nessuno: “Pensate che la gente sia informata? – spiega al Fatto Piergiorgio Boscagin, referente locale di Legambiente – Quella documentazione non era nota nemmeno ai sindaci”.
Il primo cittadino di Sarego, Roberto Castiglion (M5s), uno dei comuni dell’area rossa, ha subito scritto all ’assessore regionale alla Sanità Luca Coletto chiedendo “perché non siano stati immediatamente messi al corrente i sindaci” per poter tutelare al meglio la salute pubblica. Dopo aver chiesto la documentazione sanitaria integrale, Castiglion ha invitato gli assessori e il dirigente Mantoan a un incontro con la cittadinanza, ma i vertici politici e tecnici hanno deciso di non partecipare.
Nelle acque sotterranee nei pressi della fabbrica Miteni di Trìssino (ex Rimar, Ricerche Marzotto), che produce Pfas da più di cinquant’anni, secondo le rilevazioni effettuate dall’Arpav nel 2013 erano presenti concentrazioni elevatissime di composti perfluorurati, fino a 245 milioni di nanogrammi. E anche se dal 2011 l’azienda ha smesso di produrre i vecchi composti più dannosi (ora si occupa di Pfas a catena corta, in gergo “4C”, che nel maggio 2015 più di 200 scienziati hanno chiesto ugualmente di mettere al bando al pari dei vecchi), secondo la Regione la barriera idraulica per mettere in sicurezza il sito industriale “non sembra garantire il rispetto delle concentrazioni soglia” degli inquinanti.
http://www.eddyburg.it/2017/01/italia-tossica.html