Per chi vuole costruire una nuova sinistra in Italia – e in Europa – credo che la questione dei migranti sia un tema molto difficile, eppure imprescindibile, perché le persone “normali”, quelle che la sinistra politica dovrebbe rappresentare e difendere – quelle che formano il popolo, come avremmo detto una volta con un lessico novecentesco – hanno paura. E non è razzismo, anche se ovviamente questo ha un peso, non è solo la grettezza di difendere il proprio poco, senza volerlo condividere con chi non ha niente, anche se questo atteggiamento è comprensibile in un periodo di crisi. Gli italiani – e lo stesso vale per gli europei – che vedono arrivare tante persone, giorno dopo giorno, si pongono una domanda: e dove li mettiamo? qui non c’è più posto.
Ma adesso è cambiato tutto. Qui non c’è più posto: è drammaticamente vero e da qui dobbiamo partire. Perché altrimenti hanno facile gioco quelli che sventolano le bandiere delle loro piccole patrie e dicono che bisogna sparare a tutti quelli che sono diversi da noi, fossero anche quelli del condominio di fronte. Oppure finiscono per prevalere quelli che, pur facendosi scudo dei loro buoni propositi e di tanta ipocrita compassione, dicono che sono in grado di fermare le migrazioni. E noi ci sentiamo rassicurati da queste promesse. Se non sappiamo rispondere alla domanda e dove li mettiamo?, alla fine vinceranno quelli che dicono che bisogna aiutarli a casa loro, quelli che pagano i dittatori di turno affinché lascino affondare i barconi, tengano gli “indesiderati” nelle loro prigioni, ammazzino il maggior numero possibile di disperati, lontano dalle telecamere per non impressionare le persone che guardano la televisione.
Però non basta denunciare l’ipocrisia di chi in pubblico dice che i migranti sono troppi e, indossando un’altra giacca, li sfrutta, li usa per raccogliere i pomodori e le arance, li stipa nelle canoniche vuote per prendersi 35 euro al giorno, li fa diventare numeri per creare cooperative che gestiscono l’accoglienza. E poi le puttane nere sono anche più belle e costano meno delle italiane. Le persone magari possono darci ragione su questo, ma poi chiedono: e dove li mettiamo? Questa domanda non è più eludibile.
Il problema è che affrontiamo sempre la questione dal lato sbagliato, partendo dal dato che non c’è più posto. Invece dobbiamo cominciare a dire che il posto c’è, c’è posto in Africa, c’è posto in Asia, c’è ancora posto nelle Americhe. In quei paesi ci sarebbe posto anche per noi, siamo noi e i nostri figli che dovremmo migrare in quei paesi, perché qui davvero non c’è più posto. Però, e qui sta il nodo, noi abbiamo sistematicamente distrutto quei luoghi – e li distruggiamo ogni giorno – li abbiamo resi inospitali, li abbiamo desertificati, li abbiamo privati di ogni risorsa naturale, li abbiamo sistematicamente distrutti.
Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant; hanno fatto un deserto e lo chiamano pace. E’ la frase che Tacito fa dire al generale calèdone Calgaco per incitare i suoi soldati a combattere contro i romani. Il capitalismo ha creato il deserto in Africa e, pur avendo il pudore di non chiamarlo pace, lo definisce sviluppo. Perché anche noi del popolo in qualche modo godiamo di questo sviluppo e del fatto che miliardi di persone nel mondo sono sfruttate e che le loro terre vengono distrutte. Se tutti noi possiamo andare in giro con le nostre auto, telefonarci di continuo con i nostri smartphone, indossare le nostre magliette all’ultima moda, lo dobbiamo anche al fatto che da qualche parte del mondo un’enorme diga produce a basso costo l’energia elettrica che serve alle nostre industrie, dopo aver distrutto migliaia e migliaia di chilometri di terreno coltivabile, che da una miniera in qualche altra parte del mondo vengono estratti metalli, inquinando le falde e rendendo inutilizzabili i campi intorno, che in un’altra parte ancora c’è una grande fabbrica che getta nei fiumi inquinanti chimici, rende irrespirabile l’aria per gli uomini e gli animali, che i nostri rifiuti vengono scaricati in terre molto lontane da dove vengono prodotti. Pensate se qualcuno venisse in Italia e facesse quello che noi facciamo in Africa: noi saremmo costretti a scappare, perché nessuno vuole vivere dove non c’è acqua, dove la terra è piena di veleni, nessuno vuole vivere in una discarica. Noi in quelle terre abbiamo creato il deserto, abbiamo fatto in modo che non ci fosse più posto.
Di fronte a un fenomeno drammatico come queste migrazioni, anche quando siamo consapevoli del dramma che vivono quei popoli, non possiamo dire loro: venite qui che c’è posto. E’ una menzogna e se ne accorgono loro per primi quando arrivano qui e rimangono confinati nelle brutte e sporche periferie delle nostre città, ai margini di una società che già espelle i propri elementi più poveri. Possiamo stringerci un po’, occupare un po’ meno posto, stare un po’ più scomodi, ma c’è un limite fisico a questa accoglienza caritatevole, anche quando è animata dalle migliori intenzioni. E comunque questa forma di accoglienza è destinata a creare conflitto, ad acuire differenze che innegabilmente ci sono. Occorre invece spiegargli che qui non c’è più posto e che anzi siamo noi che dovremmo andare ad abitare in quelle terre, farle di nuovo vivere, coltivarle, renderle abitabili come erano un tempo.
Ma bisogna che prima di tutto noi diventiamo consapevoli che siamo arrivati al limite, che questo modello di sviluppo, che ci sembra così desiderabile, che ci sembra perfetto, sta distruggendo la nostra terra e alla lunga ucciderà noi e i nostri figli. Bisogna che capiamo noi per primi – in modo da spiegarlo anche a loro – che un sistema in cui pochissimi hanno la stragrande maggioranza delle ricchezze – in gran parte rubate a loro – e moltissimi hanno sempre meno non è giusto e che insieme, noi e loro, dobbiamo abbatterlo.
C’è abbastanza posto per tutti: è venuto il momento che ce lo prendiamo. In qualunque modo.