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di Penny*
A scuola dovremmo insegnare tante cose.
Ad esempio che i giorni passano e noi con loro. E il tempo conta.
Dovremmo insegnargli a ballare sulla paura. E a far sbocciare i fiori nel deserto.
Ad accettare la fine delle cose. Che le cose possono finire, e devono essere pronti ad accettarlo.
Insieme alle tabelline dovremmo insegnare la caducità di ciò che è importante. Tipo la vita.
Metterli davanti a un tramonto e dire: Ora guarda come è bello, invece di far studiare i nomi dei capoluoghi a memoria, che quelli si dimenticano e li imparano da soli. Fargli conoscere la noia. Che nella noia il pensiero costruisce idee. E i nostri figli hanno bisogno di tempo lungo.
Dovremmo insegnare che la vita vale e bisogna amare. Farlo tanto e farlo bene, anche se poi l’amore finisce. Ma quello che ci ha dato, resta per sempre. Che i sogni non glieli porta via il vento, ma li perdiamo noi. E bisogna lavorare con impegno e saperli rinnovare che anche quelli seccano. Come le piante.
Dovremmo portarli in una casa di cura. Farli parlare con i nonni che hanno ancora tanto da dire e conoscono la lingua dei piccoli. Fargli sentire la loro pelle e il tempo che passa. La vita che c’è prima che sia finita. Dovremmo insegnargli che il dolore é parte dell’esistenza, e dovremmo lasciarli piangere quando si fanno male, che fa bene al cuore. E lasciarli litigare, che i litigi passano e i bambini sanno ancora volersi bene. Dovremmo, insieme alla grammatica, insegnare a parlare delle parole. Dare i nomi ai sentimenti, che spesso sono confusi. Che da grandi non sappiamo cosa proviamo e ci perdiamo in un bicchier d’acqua.
Dovremmo farli camminare su un prato la mattina presto a piedi scalzi e fargli sentire il silenzio. Che quello dice cose. Farli andare due ore alla settimana nella palestra della solitudine. Che la solitudine s’impara e non spaventa. Dovremmo insegnargli a servire a tavola. Prendersi cura dei luoghi di tutti. Che poi così lo sanno fare. Non sporcano le strade e non rovinano le città se non sono le loro.
Cucinare un piatto buono, lasciando un po’ di libertà. Che nella vita gli ingredienti vanno dosati ma l’improvvisazione non ce la insegna nessuno. A scuola dovremmo insegnare oltre alle poesie a memoria, le canzoni. Tanto per cantare. Che la vita è davvero bella. E la musica solleva sempre. Di più nei momenti bui.
Fare esperienza del corpo. Sapere che lo abbiamo e, spesso, è il nostro migliore alleato.
Dovremmo portarli alle mostre. Che dentro a un quadro, a un’immagine, a una fotografia loro ci sanno entrare. Scavalcano luoghi e epoche in un battibaleno. Studiare la storia di ieri ma anche di oggi. Che le guerre ci sono e lo devono sapere. Che gli altri soffrono e li devono sentire. Che qualcuno è morto per la nostra libertà e qualcun altro lotta ancora per la sua. E questa è una tristezza.
Insegnargli che nel mondo non siamo uguali e potremmo parlare di meritocrazia quando tutti i bambini saranno sulla stessa linea di partenza. Finché non sarà così, sarà solo una grande truffa di cui non devono fare parte.
Ogni classe dovrebbe adottare un bambino a distanza. Che la fortuna si divide. Dovremmo insegnare ai bambini a poter essere ciò che sono. Anche niente, se la vita gli ha piegato le gambe da subito.
Dovremmo insegnargli che le mani non si alzano e la voce neppure. Che imporre la propria volontà non serve a niente.
Che possono usare il rosa se sono maschi e l’azzurro se sono femmine. Se a loro piace. Non saremo noi a dirgli cosa è giusto.
Che possono perdere di brutto e chiedere scusa. Tornare indietro sui propri passi. Virare, e farlo all’improvviso.
Dovremmo farli leggere sotto le stelle. E ogni tanto fargli osservare il cielo e i suoi misteri. Che è un maestro e conosce le rotte di tutti. Fargli esprimere tre desideri ogni stella cadente, che i desideri nella vita hanno un peso. Dovremmo insegnare ai bambini a prendersi cura di loro stessi, avere una piccola pianta, un pesce. Un essere di cui occuparsi, preoccuparsi, per poter amare chi gli sta accanto.
Dovremmo insegnargli che la scuola è di tutti e non solo di chi può permettersela. Che devono pretendere aule colorate, giuste, e spazi all’aperto, e devono curarle. Come le cose belle.
Dovremmo fargli mettere le mani nella terra. Che se si sporcano fa lo stesso. Il lavoro nobilita l’uomo e la fatica pure, e le scienze sono esperienza sul campo. Un lombrico trovato per caso può fare la differenza.
Dovremmo parlare ore. Che loro sanno cose sull’esistenza a noi ignote. Dovremmo insegnare la vita. Che il resto s’impara. Quella finisce presto e dovremmo farne buon uso. Da grandi. Da subito. E vivere è un compito urgente, più di tutto il resto.
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Se c’é una libertà che abbiamo ancora, è quella di poter utilizzare le parole. Le parole sono potenti. Hanno la presunzione di cambiare le cose. Distruggere muri e creare ponti. Comune dona una possibilità alle parole, come quella di avvicinarsi alla verità, anche se scomoda. E lo fa nell’unico modo possibile, mettendo insieme e interrogandosi. Noi possiamo esserci. E farlo insieme in un progetto che unisce. Dicendo no a una società che divide. Penny