Da un certo punto di vista quella che è riuscita a Macron è una operazione eccezionale: ha demolito il panorama politico dell’ultimo mezzo secolo, venendo incontro all’ondata populista che ha pervaso anche la Francia, ma poi al posto dei partiti storici e dei loro leader è riuscito a porre se stesso come un potere quasi […]

Nessun capo di stato in Europa è stato accompagnato dalla pregiudiziale positiva di cui ha goduto Emmanuel Macron, giovane brillante e colto. Del suo valore del resto è lui stesso il primo a essere persuaso: di fronte al vecchio Hollande che rivendicava di essere “un presidente normale”, in polemica con l’esagitato suo predecessore Macron ha dichiarato di voler restituire sacralità alla funzione e si è richiamato non all’esempio di Charles De Gaulle e neppure di qualche altro importante monarca della storia precedente alla prima Repubblica ma addiritura a un dio, anzi  al primo degli dei. Giove.

Fin dalla prima mezz’ora dopo essere stato eletto, Macron ha prediletto le immagini di se stesso in maestà, e parlando non è certo agli “io” che ha rinunciato. Da un certo punto di vista gli è riuscita una operazione eccezionale: ha demolito il panorama politico dell’ultimo mezzo secolo, venendo incontro all’ondata populista che ha pervaso anche la Francia, ma poi al posto dei partiti storici e dei loro leader ha posto se stesso come un potere quasi incondizionale. Una manovra populista  di prima grandezza.

Macron si è affermato prima di tutto come qualcuno che ha liquidato inesorabilmente la sinistra, dichiarando di voler modificare il secolare codice del lavoro, e non attraverso una riforma, se non costituzionale regolarmente parlamentare, ma bensì per decreto. Flebili sono state le obiezioni dei sindacati.

Subito dopo Macron ha invitato nella forma più solenne Donald Trump, al quale non ha risparmiato baci e abbracci e pacche sulle spalle, proclamandosi rispettoso anche delle divergenze niente meno che sul tema del cambiamento climatico. E non gli ha risparmiato onori e momumenti della capitale, anche se con scarso risultato (Trump era particolarmente offuscato durante tutta la visita parigina per via delle imprese di suo figlio), fino a consentire che i servizi di sicurezza del Presidente degli Stati uniti sgomberassero per una giornata la chiesa di Notre Dame e la Tour Eiffel, assegnate alla visita di Melania e di Brigitte, le Prime signore, e allo sfoggio dei loro vestiti.
Subito dopo Trump ha invitato Netanyahu, per ricordare assieme a Israele la deportazione degli ebrei di Francia, prima in uno stadio e poi ad Auschwitz, episodio poco glorioso di cui è stato colpevole il nostro vicino di oltralpe durante l’occupazione tedesca; onor di cronaca vuole che si riconosca a Macron di essersi anche espresso per le due Nazione e i due Stati, e di avere auspicato la fine degli insediamente nei territori occupati.
Inoltre il 17 luglio scorso Macron si è rivolto con un altro discorso ai senatori sul tema delle rifome delle collettività territoriali, argomento molto sensibile per chi lo ascoltava, per la grande rete di potere locale che sta alle spalle del sistema politico francese. È stata un occasione per dissertare anche sulla concertazione, dopo l’incidente spiacevole del 14 luglio, proprio durante la sfilata delle forze armate con il Capo di Stato maggiore dell’esercito, generale Villiers, il quale si era permesso di criticare il robusto taglio nel finanziamento delle Foa: “Sono io il capo, e non ho bisogno né di pressione né di commenti”. Una uscita che decisamente non gli  ha giovato.

Per “concertazione” Macron intende comunicazione delle sue volontà ai deputati o senatori che lo ascoltano riverenti; ma forse è stata la seconda volta che il Presidente ha incontrato qualche obiezione, avanzata in particolare dalla destra dei Repubblicani. Non è detto che gli dispiaccia, perchè così si può dimostrare che malgrado l’opera di rottamazione del sistema politico che l’ha preceduto la Francia resta una repubblica parlamentare, nonostante il partito del presidente, la Republique en Marche, abbia la maggioranza assoluta alla Camera: questo spiega i toni più affettuosi con i quali si è rivolto al senato.

Insomma le prime settimane del presidente cominciano a incontrare qualche modesta critica.

Resta da vedere se una critica simile verrà applicata anche alla politica migratoria, finora assolutamente chiusa.

http://sbilanciamoci.info/il-presidente-divino/

Di Francesco Cecchini

Nato a Roma . Compie studi classici, possiede un diploma tecnico. Frequenta sociologia a Trento ed Urbanistica a Treviso. Non si laurea perché impegnato in militanza politica, prima nel Manifesto e poi in Lotta Continua, fino al suo scioglimento. Nel 1978 abbandona la militanza attva e decide di lavorare e vivere all’estero, ma non cambia le idee. Dal 2012 scrive. La sua esperienza di aver lavorato e vissuto in molti paesi e città del mondo, Aleppo, Baghdad, Lagos, Buenos Aires, Boston, Algeri, Santiago del Cile, Tangeri e Parigi è alla base di un progetto di scrittura. Una trilogia di romanzi ambientati Bombay, Algeri e Lagos. L’ oggetto della trilogia è la violenza, il crimine e la difficoltà di vivere nelle metropoli. Ha pubblicato con Nuova Ipsa il suo primo romanzo, Rosso Bombay. Ha scritto anche una raccolta di racconti, Vivere Altrove, pubblicata da Ventura Edizioni Traduce dalle lingue, spagnolo, francese, inglese e brasiliano che conosce come esercizio di scrittura. Collabora con Ancora Fischia IL Vento. Vive nel Nord Est.

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