Il dottor Ernesto osservava i bambini che giocavano a pallone nel cortile sotto le finestre del suo piccolo ambulatorio, alla periferia meridionale di Rosario. Non riusciva a ricordare i loro nomi, anche se li aveva visitati tutti, parecchie volte; ricordava un po’ i nomi dei loro genitori, ma ancora meglio quelli dei loro nonni. Erano davvero molti anni che faceva il medico laggiù ed era il momento di smettere; a dire il vero era ormai da qualche anno che non usciva di notte per le emergenze, ci pensava il dottor Morales, che aveva meno della metà dei suoi anni e che sapeva usare il telefonino e il computer. E poi alla sua età non era prudente continuare ad andare in giro in motocicletta per le strade dissestate della città.
Il mondo là fuori era molto cambiato da quando si era laureato e aveva viaggiato per tutta l’America latina prima di ritornare a Rosario per fare il medico. Era sparita l’Unione sovietica e un nero era diventato presidente degli Stati Uniti. Lui continuava a definirsi un comunista – ormai erano pochissimi a farlo – non ricordava neppure più quando aveva cominciato a esserlo: era passato tanto tempo. Le periferie del mondo non erano affatto cambiate; anzi secondo lui la periferia di Rosario era cambiata in peggio negli ultimi cinquant’anni. Certo adesso c’erano più auto – e a causa dei loro scarichi si respirava molto peggio ed erano aumentate le malattie ai polmoni – c’erano i telefonini – e chissà che effetto avranno le onde che emettono tra qualche anno – c’era più cibo – ma quell’apparente abbondanza era a scapito della salute degli uomini e della terra. Rispetto a quando era più giovane quella sua periferia era più caotica e rumorosa e lui odiava la rozza immagine di persone che si muovevano come impazzite al ritmo di quel tremendo rumore della città. Non gli piaceva quello che vedeva dalla sua finestra e non gli piaceva diventare vecchio.
La vita di quei bambini che lui visitava tutti i giorni non era molto diversa da quella dei loro genitori e dei loro nonni. Riusciva a guarirne di più, non perché fosse diventato più bravo, ma perché c’erano medicine più efficaci, anche se troppe volte non c’erano abbastanza soldi per comprarle e quindi i bambini poveri di Rosario continuavano a morire, più che i bambini ricchi. Questa era un’ingiustizia che non riusciva a sopportare, non ci riusciva quando era giovane e non ci riusciva neppure adesso, anche se ormai era stanco e aveva capito che indignarsi non sarebbe servito a niente.
C’era stato un tempo in cui aveva pensato che non gli sarebbe bastato fare il medico, un tempo in cui avrebbe voluto impugnare le armi e andare a combattere. Strano che gli venisse in mente proprio adesso. In fondo era soddisfatto del suo lavoro, pensava alle persone che aveva salvato; diceva sempre che aveva più valore, un milione di volte, la vita di un solo essere umano che tutte le proprietà dell’uomo più ricco della terra. E lui era riuscito a salvare molte vite dei poveri di Rosario.
Avrebbe voluto fare di più, avrebbe voluto cambiare il mondo, avrebbe voluto che le bambine e i bambini della sua città che lui aveva curato avessero avuto la possibilità anche loro di studiare e diventare magari medici, per salvare altre vite e insegnare ad altri bambini. Pensava alle bambine e ai bambini che morivano ogni giorno da qualche parte del mondo, in qualche periferia; lo diceva sempre al dottor Morales che sarebbe stato un bravo medico se avesse continuato a sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo.
Amava quei bambini, pensava che il vero medico – come il vero rivoluzionario – dovrebbe essere sempre guidato da grandi sentimenti d’amore.
Mentre questi pensieri si affollavano nella sua testa, sentì un rumore e un bambino che cominciò a piangere. Era José – o Juan, non ricordava affatto i loro nomi – il figlio più piccolo di Estrela: era caduto, sanguinava. Prese la borsa e uscì in strada, come aveva fatto migliaia di volte. José – o Juan, non se lo ricordava proprio – non si era fatto nulla, si era solo spaventato e piangeva. Il dottor Ernesto lo prese in braccio, lo portò in ambulatorio e fasciò la ferita, come aveva fatto certamente anche con sua madre vent’anni prima. José – o Juan, neppure noi ci ricordiamo il suo nome – come tutti i bambini del quartiere sapeva che il dottor Ernesto lo avrebbe aiutato, ma ne aveva anche un po’ paura: era quello che gli faceva le punture, che gli dava dei colpi sulla schiena, che gli dava le medicine cattive. Quando vide che il dottore frugava nella borsa pensò che cercasse una puntura. Invece ne tirò fuori una caramella, con la sua bella carta colorata e luccicante e gliela diede. Il bambino la prese, la scartò delicatamente, mise in tasca la carta e in bocca la caramella. “Ecco la tua medicina per oggi”, brontolò il dottor Ernesto, “e adesso torna fuori”.
Nonostante tutto il dottor Ernesto non aveva perso la tenerezza.