E noi quando siamo diventati italiani? Non mi riferisco al paese, quello lo sappiamo – o almeno dovremmo saperlo, perché lo abbiamo studiato a scuola – nel 1861, anche se, come diceva il povero d’Azeglio, fatta l’Italia, non erano ancora stati fatti gli italiani. Voglio sapere invece quando ciascuno di noi è diventato italiano. E potrei fare la stessa domanda a un francese, a un cinese, a un neozelandese.
Burocraticamente sono italiano perché sono nato da due genitori italiani e quindi lo sono diventato così, all’improvviso, quando ne ero assolutamente inconsapevole. Poi lo sono progressivamente diventato perché ho imparato a parlare in italiano, perché sono andato a scuola, perché ho conosciuto la storia e la cultura di questo paese, di cui ero diventato cittadino a mia insaputa. Poi ho acquistato consapevolezza di essere un cittadino italiano quando, poco dopo aver compiuto diciott’anni, sono andato per la prima volta a votare. Immagino che per parecchi maschi la naja sia stato un altro elemento che ha contribuito a renderli italiani. E proprio perché essere italiano – ma anche essere francese, cinese, neozelandese – è qualcosa che riguarda la cultura e la consapevolezza di ciascuno di noi – molto più della burocrazia – adesso non mi definisco mai così. Mi sento emiliano più che italiano, europeo più che italiano, e più di tutto mi sento comunista più che italiano.
Per questa ragione credo che debba essere approvata prima possibile – perfino da questo parlamento così incredibilmente delegittimato – una legge che introduca lo ius soli al posto dello ius sanguinis: è un elemento di civiltà, al di là di ogni altra considerazione politica. Ma proprio per quello che ho detto prima questo dibattito, che pure impegna tante persone, tante coscienze – anche in buona fede – che anima la vita politica italiana in queste settimane, mi sembra inadeguato, proprio perché ho l’impressione che lo ius soli sia una specie di etichetta – certamente una bella etichetta – messa sopra un barattolo che però è vuoto.
Quali sono i diritti di cui devono godere una bambina e un bambino nati in Italia da genitori non italiani, ma che sono comunque italiani? Quali sono – o quali dovrebbero essere – i diritti di un cittadino, indipendentemente dal suo “suolo” e dal suo “sangue”? Su questo mi sembra che abbiamo idee piuttosto diverse. Perché molti sono convinti che basti un’uguaglianza formale: cari bambini, siete tutti italiani allo stesso modo e adesso gambe in spalla. Per me invece dietro quell’etichetta dovremmo cominciare a ragionare davvero di diritti, perché non è uguale se sei maschio o femmina, come non è uguale se sei ricco o povero. I maschi si prendono più diritti delle femmine e i ricchi se ne prendono ancora di più. E quindi, anche se Fatima e Maria sono entrambe burocraticamente italiane perché tutte e due sono nate in Italia, continuano a essere pagate meno di Mohamed e di Giuseppe, solo perché sono donne: essere o non essere italiane conta assai poco. Se Mohamed e Giuseppe lavorano entrambi in nero senza diritti, cambia poco che siano o non siano italiani.
Fatima e Mohamed sono nati in Italia e quindi sono italiani, ma che diritti ha un italiano? Per me è questa la domanda vera. Ed è anche per questo che la questione dello ius soli è così combattuta. Perché Maria e Giuseppe, italiani perché nati in Italia, hanno pochissimi diritti, ne sono consapevoli e pensano – non del tutto a torto, a dire il vero – che quando anche Fatima e Mohamed diventeranno italiani, quel poco lo dovranno dividere e allora sarà pochissimo. E quindi difendono il loro poco: è naturale che lo facciano e non possiamo scandalizzarci. Dovremmo invece indignarci del fatto che sono sfruttati, indipendentemente da quello che dice il loro certificato di nascita.
La questione non è essere o non essere italiani – o francesi, o cinesi, o neozelandesi – ma essere o non essere sfruttati, perché siamo poveri, perché siamo donne, perché non abbiamo studiato. Allora cosa vuol dire essere italiano? Che significato può avere quel pezzo di carta per Fatima e Mohamed? Poco, perché anche loro sono consapevoli della società in cui hanno avuto la ventura di nascere e sanno che dovranno dividersi quel poco che qualcuno ha già e che quindi, una volta diviso, diventerà pochissimo, ma che a loro sembra già desiderabile, non avendo nulla. E qui rischia di nascere un conflitto, un conflitto che è già sotto gli occhi di tutti noi, anche se non lo vogliamo vedere; perché non vogliamo vedere che il dramma per tutti, per Fatima e per Giuseppe, per Maria e per Mohamed, è che non ci sono diritti, che quel vaso, con quella bella etichetta, è drammaticamente vuoto.
se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…