L’esempio e l’insegnamento del “Che”Credits: youtube.com

In questo 2017, nel 150° dalla pubblicazione del I libro del Capitale, il grande Novecento si proietta nel presente attraverso alcune ricorrenze storiche: 100 anni dalla rivoluzione bolscevica, 50 dall’assassinio del Che in Bolivia, e anche 40 anni dal movimento del ’77 in Italia. Ma in che modo e con quali strumenti vengono recepite queste date?

La storia è storia di lotte di classe e il modo in cui la si racconta dipende dai rapporti di forza, dall’egemonia esercitata da una classe sull’altra. La borghesia, quando vince, si dedica con ogni mezzo a cancellare la memoria storica del proletariato, per scongiurare la paura provata con le vittorie del movimento operaio. E così, del secolo di Lenin e delle rivoluzioni, ci tramanda un racconto di complotti, massacri e dittature. Ragion per cui, quando si discute di comunismo, c’è sempre qualcuno che chiede: “Sì, ma le Foibe?”, oppure “Sì, ma lo stalinismo?”. Nel presente del post-tutto, della “verità del frammento” che diventa la “verità dei post”, la storia si guarda attraverso il buco della serratura: come successione di eventi, fatti e fatterelli senza nesso tra significante e significato, tra parole e fatti. Il bilancio viene consegnato all’abiura e ai tribunali.

“La rivoluzione è pericolosa, meglio farne a meno”, dichiarava il socialista francese Michel Rocard nel bicentenario del 1789. E, nel 2000, sulla New Left Review, il marxista Perry Anderson così descriveva il clima imperante dopo il crollo dell’Urss: “Per la prima volta dalla Riforma, non c’è più un’opposizione propriamente detta – cioè una visione contrapposta del mondo – nell’universo del pensiero occidentale; e quasi nessuna su scala mondiale, se si escludono le dottrine religiose, arcaismi inoperanti. Il neoliberismo, in quanto insieme di principi, regna incontrastato su tutto il pianeta…”. Non proprio su tutto il pianeta, grazie alla resistenza di Cuba e a quella parte dell’America latina che, con la vittoria di Chavez in Venezuela, scommette di raccogliere l’eredità del Che, seppur sotto altre forme. Di sicuro, però, in Europa, dove – nel clima di restaurazione che domina -, la lotta di classe la fanno i poteri forti. E la piccola borghesia non osa contraddirne i cantori. In un quadro simile, di quale Che Guevara si è parlato? Al meglio, di un eroe romantico e lontano quanto le rivoluzioni che ha ispirato, persino in casa nostra.

Il mito del Che inizia dopo la sua morte, un anno prima del ’68, che infiammerà le piazze e le coscienze. Partendo per il Congo e poi per la Bolivia, dopo aver ricoperto vari ruoli di governo, Guevara lascia per la seconda volta la valigetta del medico per quella dei proiettili. E rimane impresso per lo “scandalo etico” della rinuncia al potere istituito.

Il suo mito varia, nella percezione e nelle ragioni, nel corso degli anni e in relazione al contesto.

Negli anni ’70 raggiunge quello di altri rivoluzionari che lottano e muoiono, come Newton delle Pantere Nere negli Stati uniti o Ho Chi Minh in Vietnam: creare due, tre, molti Vietnam, diceva Guevara. Lo spirito di sacrificio, la lotta per la presa del potere, erano elementi comuni allora. In America latina avevano evidenziato la rottura con l’immobilismo post-kominternista dei partiti comunisti tradizionali, rimettendo in gioco la necessità-possibilità della rivoluzione.Alimenteranno anche le guerriglie comuniste in Europa. In Italia, ispireranno i Gap di Feltrinelli, la guerriglia urbana delle Brigate Rosse e si immetteranno poi nei tanti rivoli del movimento del ’77.

L’assassinio del Che provoca subito discussioni accese all’interno dell’allora Pci, il cui attendismo sta diventando sempre più una camicia stretta per molti giovani al suo interno. Le divergenze si sono già manifestate sugli scontri violentissimi tra manifestanti e polizia, avvenuti nel 1962 a Torino, a Piazza Statuto, in seguito allo sciopero cittadino dei metalmeccanici. Per i partiti della sinistra, Psi e Pci, gli scontri erano da attribuire a “provocatori” infiltrati fra gli operai. La condanna degli “estremismi” continua poi con gli scontri seguiti allo sciopero degli edili a Roma, il 9 ottobre del 1963 (centinaia di feriti e 33 operai condannati a due anni di carcere). E ancora con quelli dei braccianti meridionali che, nell’ottobre del 1964 a Battipaglia, hanno resistito allo sgombero di un’occupazione di terre e alla violenta repressione della polizia (decine di lavoratori fermati).

Nel libro “Un contadino nella metropoli” (Bompiani), Prospero Gallinari – dirigente storico delle Brigate Rosse, morto da detenuto il 14 gennaio del 2013 – ricorda come ha vissuto la notizia dell’uccisione del Che da giovane militante della Fgci di Reggio Emilia. “Lo scoramento, il dolore, la rabbia, poi la decisione. È mattina, e gli altri compagni della sezione sono quasi tutti a lavorare. Ricordo che devo andare col trattore in caseificio, a ritirare il siero del latte per i maiali. Il caseificio è vicinissimo alla sezione, e così, invece di farci il solito salto di straforo per leggere il giornale, stabilisco che è tempo di assumermi quella che considero una grande responsabilità. Decido di esporre a lutto, sul balcone della sezione, tutte le bandiere disponibili, sia quella del Partito sia quella della Fgci. Fisso le trombe dell’amplificatore sulla ringhiera e regolo il giradischi al massimo, passando tutte le canzoni di lotta e di protesta che riesco a trovare: dall’Internazionale, a Bandiera Rossa, a quelle partigiane, alla canzone dedicata ai morti di Reggio Emilia… Lascio le chiavi al compagno che gestisce il bar e rimaniamo d’accordo che andrà lui, durante il resto della giornata, a cambiare i dischi”. Poi, Prospero torna nei campi a lavorare. Ma, intanto, il segretario di sezione ha già staccato le bandiere e si appresta a rampognare pesantemente il giovane militante. “Avevo sbagliato nel merito – scrive Gallinari – perché Guevara era un trockista, un avventurista: tutto fuorché un comunista da commemorare ufficialmente”.

L’esempio che proveniva dal Che era chiaro: aveva rinunciato al potere ottenuto, all’esercizio complicato dello Stato per estendere la rivoluzione nel mondo o, se vogliamo, per educare e organizzare altre masse a prendere il potere e a farlo attraverso una rivoluzione, dunque con le armi, in un contesto in cui le classi subalterne premevano per trasformare radicalmente le cose.

Le Brigate Rosse presero alla lettera il messaggio di Guevara, ibridandone il “fochismo” con altri stimoli vivificatori provenienti dal mondo in rivolta: le Black Panter, i Tupamaros, gli scritti incendiari del brasiliano Carlos Marighella. E ovviamente il leninismo, che rese possibile per 15 anni la lotta armata in Italia.

Finita quella fase, prende avvio un progressivo processo di anestetizzazione e santificazione del mito Guevara: di mediatizzazione dell’aspetto donchisciottesco, disincarnato da quello giacobino. Ed ecco il Che ridotto a Sindone, sulle magliette di chi, negli anni del disimpegno, magari va in Messico ma indossando quella Sindone vuole dire che forse non si sente a suo agio in questo mondo.

Ma è negli anni ’90 che la trasformazione del mito in una falsificazione unidimensionale dilaga: Guevara diventa l’emblema della rinuncia al potere, magari da affiancare a Marcos, l’eroe-immagine più telematico di tutti.

I tratti della sua coerenza etica non si spiegano più in base a una motivazione totalizzante che derivava dalla fede nella necessità storica del comunismo e in quella dell’azione soggettiva. Diventa persino un’icona pacifista, corredo afasico anche di quanti sputano a quattro ganasce su quell’etica del sacrificio che ha fatto di lui uno splendido “fanatico” dello stakanovismo consensuale, dello spendersi senza riserve nel lavoro collettivo. E intanto si passa dal militante al volontario e, nel dilagare della “o.n.g.izzazione” del mondo, la prospettiva del comunismo viene derubricata a quella della “riduzione del danno”.

Si cerca persino di giocare Guevara contro Fidel Castro facendo dell’uno uno stralunato cavaliere senza macchia e dell’altro un bieco caudillo totalitario.

In seguito, persino questo Che disincarnato e addomesticato diventa imbarazzante per quanti, a sinistra, pretendono un atteggiamento “ragionevole” da parte dei settori popolari e cercano di conciliare ipocritamente lo squalo e la sardina, gli interessi dei dominanti e quelli dei dominati.

Nel generale capovolgimento di senso, quello del Che diventa un mito innocuo per tutte le stagioni: buono persino per i centri sociali di destra…

Anche sul ’77 si è compiuta un’operazione di revisionismo storico per depotenziarne la componente rivoluzionaria organizzata. Come per il ’68 si è voluto celebrare un ’77 bucolico, senza inquadramento storico della violenza politica, espungendo la lotta armata e lo scontro senza quartiere tra lo squadrismo fascista e i suoi protettori al potere: gli stessi del Piano Condor che stava dilagando in America latina agli ordini della Cia.

Da quegli anni e da quel contesto torna sulle cronache la vicenda di Cesare Battisti, esule in Brasile, cacciato senza tregua dal governo italiano. Il suo gruppo è stato uno dei tanti esistenti, oltre alle due principali guerriglie – Brigate rosse e Prima Linea. Per le cronache è un odioso assassino, ancora più antipatico per essere anche diventato un giallista di successo: per inciso celebrato nel breve periodo in cui, in Francia, pareva essere stato accettato da una certa intellighenzia. La piccola borghesia fiuta sempre l’aria e quando il vento è contrario, se ne ritrae.

Intanto, quanto più si ricatta il presente con il peso del passato e della storia, quanto più si depotenzia la necessità di una rottura vera con l’ordine economico e politico esistente, tanto più prende corpo lo strapotere delle classi dominanti: che fanno e disfano a proprio piacimento le regole che vogliono farti osservare: il conflitto deve stare nel recinto intanto che loro fanno quel che più gli aggrada. Il “caso Battisti” dice anche questo.

E allora? Celebrare l’eredità e la presenza di Lenin, del Che e anche dei comunisti e delle comuniste degli ’70 significa riprenderne la bandiera ideale: quella del coraggio e dell’azione, della scelta di campo e del sacrificio per un principio superiore e un progetto comune. La bandiera del riscatto e della dignità, che avanza nuovamente da Cuba al Venezuela e si proietta nei nostri quartieri, mettendoci ancora di fronte ai compiti che dobbiamo affrontare.

https://www.lacittafutura.it/editoriali/l-esempio-e-l-insegnamento-del-che.html

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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