l’Avvenire, 15 ottobre 2017. Mignone (Acnur Libia). Nel paese alleato con l’Italia di Gentiloni e Minniti perché ricco d’idrocarburi l’Onu ha scoperte prigioni clandestine con più di 10mila profughi».
Il rappresentante Alto commissariato Onu per i rifugiati a Tripoli racconta il caos di Sabratha. «Compiute 730 visite nei centri ufficiali di detenzione e ottenuta la libertà per 1.400»
«I violenti scontri tra milizie della zona di Sabratha hanno provocato prima di tutto un altissimo numero di sfollati interni, cittadini libici che stanno affrontando nuovamente situazioni di precarietà e disagio. E poi sono state scoperte diverse prigioni clandestine dove erano rinchiusi migliaia di rifugiati e migranti, almeno 10 mila persone per stare a una stima prudenziale, che si trovavano in attesa di poter attraversare il Mediterraneo e che oggi stiamo assistendo».
Roberto Mignone è il rappresentante dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati in Libia. Risponde, considerato il ruolo e il contesto, calibrando il tono e le parole. L’agenzia guidata da Filippo Grandi ha scelto per il non facile ritorno a Tripoli un funzionario con una lunga esperienza negli interventi di risposta rapida in situazioni d’emergenza. Solo nel 2016, da Principal emergency response coordinator dell’Acnur, Mignone è intervenuto durante emergenze e catastrofi in Burundi, Senegal, Ecuador, Honduras, Guatemala, El Salvador, Panama, Venezuela, Sud Sudan e Iraq.
Qual è la situazione a Sabratha?
«Da una settimana lo staff dell’Agenzia Onu per i Rifugiati è al lavoro per far fronte agli urgenti bisogni umanitari nella città e nelle zone limitrofe. Non facciamo differenze, perciò le Nazioni Unite stanno assistendo tutte le persone che necessitano di aiuti, e tra queste vi sono decine di migliaia di libici sfollati interni, anch’essi vittime troppe volte dimenticate di questa crisi. Al termine degli scontri, 3.000 famiglie libiche sono state costrette ad abbandonare le proprie case e più di 10.000 tra rifugiati e migranti sono in difficoltà e hanno bisogno urgente di assistenza. Ci sono 2.000 famiglie che hanno fatto ritorno nelle loro abitazioni, ma necessitano comunque di assistenza. Più di 500 sono le case danneggiate o distrutte dai colpi di mortaio e dai bombardamenti. Le autorità locali parlano anche di un certo numero di scuole danneggiate e stiamo lavorando per riaprirle».
Migranti e rifugiati si sono trovati nel mezzo delle periodiche battaglie. Con quale risultato?
«I combattimenti hanno permesso di scoprire un imprecisato numero di prigioni clandestine, sotto il diretto controllo delle milizie e dei trafficanti di uomini. E da queste migliaia di persone sono scappate. Migranti e rifugiati sono stati trasferiti nell’hangar che si trova nella zona di Dahman, dove questo sito sta iniziando a essere utilizzato come punto di raccolta e ospita al momento 4.500 persone».
Quali sono le vostre priorità in Libia?
«Innanzitutto lavorare sull’identificazione dei casi più vulnerabili, persone che rischiano di essere trasferite nei centri di detenzione. L’Acnur ha già fatto presente alle autorità la necessità che i rifugiati al momento detenuti vengano rilasciati immediatamente e trasferiti in un posto sicuro dove possiamo fornire loro assistenza. Intanto lavoriamo a stretto contatto con le autorità di Sabratha, Sorman e Zuara, per individuare e avviare progetti di risposta rapida, compresa la riapertura delle scuole per gli sfollati interni».
Riuscite ad avere libertà di movimento all’interno del Paese?
«A giugno un convoglio delle Nazioni Unite è stato attaccato a colpi di mitra e bazooka e solo per un caso non è stata una strage di funzionari internazionali. Nonostante questo, il personale internazionale dell’Acnur viaggia ogni settimana in Libia per missioni di rotazione. Io stesso sto aspettando dalle Nazioni Unite (che valutano i rischi per la sicurezza e autorizzano o vietano gli spostamenti, ndr) il via libera per raggiungere Sabratha».
L’Acnur riesce ad accedere nei centri di raccolta dei migranti? Che tipo di lavoro riuscite a compiere?
«Ad oggi abbiamo compiuto 730 visite nei centri di detenzione ufficiale, dove interveniamo per offrire cure mediche, assistenza materiale, e per identificare i casi su cui possiamo intervenire per ottenerne il rilascio (1.400 le persone liberate nel 2016, ndr) e la concessione dello status di rifugiato, ma si tratta di procedure complicate perché bisogna sempre concordare tutto in anticipo con le autorità libiche».
Cosa chiedete in particolare alle autorità di Tripoli?
«Fino ad ora abbiamo registrato 43.133 persone come rifugiati o richiedenti asilo. Di questi l’85% era in Libia da tempo. Ma non dimentichiamo che ci troviamo ad agire in un contesto precario. La Libia non ha firmato la convenzione di Ginevra sullo stato dei rifugiati del 1951, e Tripoli non ha neanche un memorandum con l’Acnur. Quello che ci permettono di fare è registrare e identificare i migranti, su cui discutiamo caso per caso per riconoscere la protezione internazionale».
Cosa dovrebbero fare la comunità internazionale e Paesi come l’Italia, che sono in stretto contatto con il governo riconosciuto, per facilitare il vostro lavoro?
«Un esempio: stiamo cercando di negoziare con le autorità anche sul numero di nazionalità meritevoli di protezione, in modo da poterle ampliare poiché la Libia ammette solo un ristretto gruppo di provenienze. Ma qui abbiamo casi di profughi da Yemen, Sud Sudan, Congo. Ci sono poi anche profughi siriani, arrivati quando nel loro Paese era scoppiata la guerra. Per il momento Tripoli non ne riconosce lo status, ma confidiamo di ottenere risultati in tempi brevi. E crediamo che queste istanze siano ben note a quanti nel mondo si relazionano e possono insistere con Tripoli».
http://www.eddyburg.it/2017/10/libia-scoperte-prigioni-clandestine-con.html