Renzi vede avversari ovunque, dentro e fuori il partito e quindi deve rilanciare la sua figura e il suo ruolo. Ma forse chi lo ha insediato non è più disposto a correre rischi
di Diego Giachetti
… io quasi quasi prendo il treno/ e vengo, vengo da te/ Ma il treno dei desideri/ nei miei pensieri, all’incontrario va (Adriano Celentano, Azzurro, 1968)
Dopo un’estate trascorsa trotterellando da una festa all’altra dell’Unità a presentare il suo ultimo sforzo letterario (Avanti. Perché l’Italia non si ferma, Feltrinelli, 2017), il segretario del Pd Matteo Renzi è partito dalla stazione Tiburtina di Roma su un treno intitolato «Destinazione Italia», per un viaggio di propaganda che attraverserà il Paese e durerà due mesi. Un viaggio “di ascolto dell’Italia e degli italiani” ha proclamato prima di partire. Obiettivo personale dell’iniziativa è quello di rilanciare la figura del leader un po’ messa da parte in questi ultimi mesi in vista della prossima campagna elettorale. Renzi intende ribadire che sarà lui il candidato alla presidenza del consiglio dopo le elezioni, ammesso che il partito ottenga un buon risultato. Non si tratta di ribadire un evento dato per certo, ma di riaffermare con forza un obiettivo che in questi ultimi mesi velatamente è stato messo in forse.
Quando una società è debole, spaventata, divisa, osanna l’emergere del nuovo leader salvifico per poi compiacersi quando lo vede cadere in disgrazia. Renzi è stato un brillante outsider della politica. Prima segretario del maggior partito italiano, poi subito capo del governo, ha voluto osare un referendum volto a modificare alcune parti importanti della Costituzione, per trasformarlo in un plebiscito di massa a sua favore. Gli è andata male. E’ caduto, è risorto con fatica riprendendosi il posto da segretario, trampolino di lancio, lui spera, per diventare capo del prossimo governo. Quest’ultima meta non è però scontata. Sperava di cavarsela con un breve interludio governativo – durante il quale Gentiloni e gli altri ministri del suo partito, avrebbero brillato solo della luce riflessa prodotta dal leader – per poi andare velocemente ad elezioni anticipate. Ha dovuto ricredersi, rimandare la scadenza della rivincita e il tempo non ha giocato a suo favore. Altre luci si sono affacciate sulla possibile scena del prossimo potere, tra questi lo stesso Presidente del consiglio Gentiloni il quale, stando ai sondaggi d’opinione, in dieci mesi ha scalato la classifica della fiducia, scavalcando anche il leader del suo partito.
Renzi vede avversari ovunque, dentro e fuori il partito e quindi deve rilanciare la sua figura e il suo ruolo prossimo venturo. Una parte notevole dell’establishment che lo ha appoggiato, dopo la scoppola subita al referendum teme di essere coinvolta in altre avventure che hanno lo scopo di realizzare il disegno politico personale di Renzi. Chi occupa una posizione di leadership, ha scritto Giovanni Orsina su La Stampa del 23 febbraio 2017, «tende a non mollarla per nessun motivo. Possiamo immaginare che a contare siano i privilegi e le risorse materiali di cui gode chi comanda. C’è qualcosa di più e di più profondo. L’eccitazione, la vitalità, il senso di sé che l’essere leader genera emozioni delle quali si può fare a meno se non le si conosce, ma alle quali è difficilissimo rinunciare se le si è provate. Il leader troverà sempre dei motivi per i quali è nell’interesse di tutti che lui (o lei) non se ne vada. Non può spettare al leader il compito di dichiarare finita la propria leadership. E’ l’istituzione all’interno della quale esso opera che al momento giusto deve mostrarsi capace di defenestrare il leader”. E il leader si presenta indebolito da sconfitte elettorali già ricordate che lo hanno portato a rinunciare alla guida del governo e a dover pagare la propria riconferma alla segreteria con una scissione. Ci vorrebbe una figura nuova, lo dicono anche i commentatori borghesi, com’è stato Renzi a suo tempo e ora non lo è più. Non se ne vedono tante “ma chi ci sta provando c’è”, ha scritto Marcello Sorgi su La Stampa del 26 settembre 2017.
Forse il nostro si era troppo facilmente convinto di aver fatto terra bruciata dietro di sé con la rottamazione e di aver raggiunto la tranquillità del conquistatore quella che, secondo quanto attribuito a Gengis Khan, «richiede la “morte” dei conquistati». Consapevole dei pericoli è corso ai ripari e lo ha fatto a modo suo. Con azioni che riconfermano il metodo da lui preferito, quello del rottamatore, abbandonando la fase “zen” di osservazione e pacificazione, come l’aveva definita lui stesso. Come aveva già fatto nel libro recentemente pubblicato, l’io Renzi, narratore e protagonista, torna a fondersi col noi-partito, così che potrebbe dire, parafrasando il Re Sole Luigi XIV, «le Pd c’est moi». Ha imposto al governo il ricorso alla fiducia per far approvare la legge elettorale detta rosatellum e poco dopo la mozione di sfiducia al presidente della Banca d’Italia Ignazio Visco, con la quale si chiede non gli venga riconfermato l’incarico. Una mossa politica per scaricare su di lui tutte le responsabilità della crisi attraversata dal sistema bancario italiano che ha afflitto il governo Renzi e gli imparentati, a cominciare dalla scandalo Banca Etruria.
Avviandosi verso la campagna elettorale, Renzi si prepara ad usare il trucco statistico che gli anglosassoni chiamano cherry picking (scegliersi le ciliegie), ovvero presentare solo i dati che gli danno ragione e scaricare quelli negativi (banche, Buona Scuola, vicende giudiziarie) attribuendone la responsabilità ad altri: i giornalisti, i magistrati arrivisti, il sindacato, la capricciosa minoranza del Partito, il mancato controllo di Bankitalia. Le “ciliegine”, amare per tutti, che invece fieramente continua a difendere sono tra le altre il Jobs Act e l’abolizione dell’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, mentre Marchionne viene elevato ancora una volta a modello manageriale.
Ancora una volta è entrato in campo con una azione inattesa, aprendo un conflitto istituzionale, politicizzando una scelta che è di competenza istituzionale, cioè del governo e del Quirinale che ha provocato la reazione quasi unanime dell’establishment, preoccupato del fatto che gli interessi personali di Renzi e del suo partito confliggano con quelli della classe dominante che vuole stabilità, tranquillità e continuità nell’assetto istituzionale e governativo, soprattutto quando si tratta di sistema bancario. I commenti sono stati in gran parte severi, le critiche “autorevoli” numerose, da Walter Veltroni, che solo cinque giorni fa festeggiava fianco a fianco al segretario i dieci anni del Pd, all’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano, al capogruppo al Senato del Pd Luigi Zanda, al ministro Calenda, alle varie minoranze interne sostenuti tutti dal capo dello Stato, dall’establishment, dalla Bce di Draghi.
Per ben governare, le élite del potere economico e finanziario non possono prescindere facilmente dall’élite politica espressa dal Pd, che resta per loro, in questo momento, il partito più affidabile. Ma non vogliono correre rischi inutili, condividere scelte tese a promuovere l’affermazione personale di un individuo o di un piccolo gruppo di dirigenti di partito. Insomma, anche la classe borghese gioca e giocherà la sua partita elettorale. Non dovrà affrontare un solido fronte di sinistra radicale, che stenta a nascere, e potrà dedicarsi a ridefinire la figura del leader che dovrà dirigere il futuro governo, dopo le elezioni di primavera.