Anche chi è radicalmente ostile a quella storia deve riconoscere che quello che avvenne in Russia tra il 25 e il 26 ottobre (ossia il 7 e l’8 novembre, secondo il calendario giuliano) del 1917 – appena cent’anni fa – è uno di quei momenti che hanno segnato la storia, che indicano uno spartiacque tra quello che c’è stato prima e quello che ci sarebbe stato dopo. Perché la Rivoluzione d’ottobre è un evento epocale che segna tutta la storia del Novecento, non solo in quel grande paese.
Quella rivoluzione rappresentò per tanti una speranza – in Italia durante il biennio rosso la parola d’ordine divenne “fare come in Russia” – e per pochi una minaccia e questo conflitto tra speranza e paura della rivoluzione è stato l’elemento che ha caratterizzato direttamente tutta la vicenda della prima metà del Novecento: l’affermarsi in tutta Europa del movimento operaio, al cui interno si consolidò proprio grazie a quella rivoluzione l’opzione marxista e socialista e la conseguente reazione fascista, con tutto quello che ha significato fino alla seconda guerra mondiale, sono incomprensibili senza la Rivoluzione d’ottobre. Anzi proprio quella rivoluzione fu l’elemento che segnò alla fine della Grande guerra il passaggio da un secolo all’altro, da un’era all’altra, perché la prima guerra mondiale sarebbe potuta finire come l’ennesimo scontro tra le potenze europee, come erano stati quelli dei secoli precedenti, ma il fatto che finì con la nascita di uno stato così radicalmente nuovo, davvero rivoluzionario, significava che la storia non sarebbe più stata la stessa. E non fu più la stessa.
L’equilibrio tra le cosiddette potenze nucleari uscite vincitrici dal secondo conflitto mondiale e il processo complesso e drammatico che ha condotto alla fine degli imperi coloniali sono conseguenze a lungo termine della Rivoluzione d’ottobre, perché per tanti popoli del mondo l’Urss fu un esempio e una guida. Perfino il mondo in cui viviamo ora, in cui è sparita l’Unione sovietica, il comunismo sconfitto è considerato alla stregua di un fenomeno politico criminale e il capitalismo ha trionfato senza freni, non solo nella politica, ma nel sentire delle persone, non si spiegherebbe senza la Rivoluzione del 25 e 26 ottobre 1917. La reazione odierna del capitalismo non sarebbe così violenta se non ci fosse stata quella rivoluzione, anche perché la paura del comunismo portò il capitalismo a autoriformarsi alla fine della seconda guerra mondiale, anche introducendo forme di pianificazione tipiche del comunismo. La fine di questo compromesso è la storia che noi ora viviamo.
Ovviamente per quelli come me, la cui storia politica risale in qualche modo a quell’evento, la Rivoluzione d’ottobre ha un significato anche emotivo, che va al di là di ogni analisi di tipo storico. Ed è qualcosa a cui non riusciamo a sottrarci anche quando siamo convinti di guardare a quegli eventi con distacco e con un obiettivo rigore storico.
Sarebbe stupido pensare a quella storia con nostalghia, oppure considerarla in maniera critica; e allo stesso modo non dobbiamo ogni volta prendere le distanze, come scusandoci, da quello che consideriamo giustamente sbagliato o addirittura criminale. La storia è quella, con quello che ci piace e quello che non ci piace, quello di cui siamo fieri e quello di cui ci vergogniamo, la storia non è un menu da cui possiamo scegliere à la carte, lasciando lì le purghe, il culto della personalità, lo stalinismo. La storia della Rivoluzione d’ottobre è tutta intera: prendere o lasciare.
Ed è così, tutta intera, la storia di molti di noi – perché non posso dimenticare che mio padre e tra le persone più importanti che ho conosciuto nella mia vita furono da giovani certamente stalinisti – ed è una storia di cui io sono orgoglioso e che rivendico, per quello che ancora ci insegna, per gli obiettivi che ancora ci impone, per i valori che ci devono guidare nella lotta. Perché in sostanza, al di là di ogni altra considerazione, è la parte giusta. E dobbiamo considerarci fortunati per il fatto che ci hanno insegnato a stare dalla parte giusta; ma è una fortuna che in qualche modo ci dobbiamo meritare, che dobbiamo coltivare e che dobbiamo portare avanti.