Negli ultimi mesi, attraverso alcuni media nazionali, è stata più volte prospettata una missione militare dell’Italia in Niger, sistematicamente smentita dal governo. Tutto lasciava pensare che la cosiddetta operazione “Deserto Rosso”, atta a contrastare il terrorismo e la migrazione dall’Africa subsahariana, passando per la Libia, verso i paesi europei, fosse un progetto inapplicabile. L’ottobre scorso, però, in aperto contrasto con le dichiarazioni di cinque mesi prima del Ministero della Difesa e sulla scorta di un accordo di cooperazione militare tra Italia e Niger – firmato a Roma il 26 settembre e i cui dettagli sono tuttora oscuri – fonti militari hanno annunciato l’avvio di una nuova missione militare italiana in Niger. L’operazione è stata annunciata ufficialmente dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni al termine del G5 Sahel a Parigi, dichiarando che saranno inviati nelle prossime settimane 470 uomini e 150 veicoli per addestrare le truppe nigerine e per combattere il traffico di migranti.
L’intervento militare in questo paese ricco di uranio, petrolio, gas naturale, oro e diamanti, non è una novità. Infatti, in prima fila, a reggere il vessillo della “solidarietà internazionale” nella lotta al terrorismo e nell’ostruzione dei flussi migratori attraverso la militarizzazione del suolo sub-sahariano troviamo Francia, Stati Uniti e Germania.
Il Niger rientra perfettamente in quella ridefinizione strategica nello scacchiere internazionale che sta coinvolgendo diversi paesi, un tempo marginali, ma che rivestono oggi un ruolo d’importanza rilevante per le mire politiche ed economiche di diverse potenze mondiali.
Per decifrare coerentemente l’operazione militare italiana in Niger, occorre muoversi attraverso due chiavi di lettura parallele: da una parte la definizione delle sfere d’influenza nell’Africa della fascia saheliana da parte delle potenze occidentali, a fronte dell’intervento sempre più pressante nel suddetto territorio di altri attori politici quali Cina, Sudafrica e India; dall’altra l’ossessione della lotta al terrorismo e ai flussi migratori verso l’Europa, tradotto in una gestione rigida e criminale delle frontiere. In questo scenario, l’Italia è direttamente interessata e partecipe, e dietro il velo della lotta unitaria contro le migrazioni e il terrorismo, il suo spirito interventista mostra un allineamento alla logica strategica di concorrenza e controllo del territorio. Anche questa non è storia nuova.
Da parte sua il governo del Niger ha partecipato più volte negli ultimi anni a conferenze globali sui temi della sicurezza e sulla gestione delle frontiere. Nel 2015 viene adottata dall’Assemblea nazionale del Niger la legge 36, uno strumento atto a reprimere il traffico illecito dei migranti, ma soprattutto ad adempiere all’impegno sottoscritto alla Valletta nel 2015 con l’Unione Europea che chiedeva esplicitamente al governo di Niamey di fermare i migranti nigerini.
Tale legge criminalizza fortemente tutti gli attori coinvolti nel tentativo di viaggio dei migranti: da chi fornisce un mezzo di trasporto a chi ospita le persone in viaggio; prevede pene detentive o sanzioni altissime per chiunque favorisca l’ingresso e l’uscita nel Niger.
Questa legge ha avuto gravi ripercussioni sulla vita interna del paese e la decisione del governo nigerino, dalla fine del 2016, è stata quella di attivare misure amministrative allo scopo di bloccare i migranti in partenza per la Libia e dell’Algeria. Da qualche mese, appunto, il numero di migranti transitanti per il Niger è diminuito, perseguendo quelli che sono gli obiettivi del governo e le volontà dell’Europa. Le politiche di criminalizzazione della “catena” migratoria, da chi approfitta economicamente del flusso – dai passeurs, ai traghettatori, ai trafficanti – agli stessi migranti, e la decisione di sbarrare le rotte migratorie da parte del governo, non hanno fatto altro che ingrandire tensioni tra le autorità e la popolazione coinvolta non-migrante che vede nelle decisioni istituzionali un attacco economico nei loro confronti, a fronte della diffusa povertà, corruzione e accentramento della ricchezza. Così in Niger, mentre la forbice socioeconomica tra élite di potere e cittadini diventa sempre più ampia e il governo locale stringe accordi con gli alleati interessati a bloccare i flussi verso l’Europa, i migranti continuano a tentare di raggiungere la Libia, attraverso i pericolosi tragitti del deserto, alla ricerca di nuovi percorsi per eludere i controlli militari.
Gli interessi non finiscono là dove si infrange l’onda delle migrazioni. Mentre l’Italia erige muri difensivi nel Mediterraneo per impedire ai “neri” di passare il confine, la contesa tra Parigi e Pechino sul territorio ha anche altri colori: il bianco e l’argento di un metallo tossico e radioattivo, l’uranio. Infatti il colosso francese Areva continua a estrarre nel deserto del nord il minerale che contribuisce per il 30 % al fabbisogno energetico transalpino. Contemporaneamente, nella stessa zona, anche la Cina ha avviato il suo partenariato economico con il Niger, ottenendo la concessione per lo sfruttamento delle miniere d’uranio di Azelik.
A quanto detto, per capire le ragioni del dispiegamento di forze militari estere, è da aggiungere il problema della pressione terroristica tra il nord-ovest nigerino, sotto il cartello di Al-Qaeda, e Boko Haram a sud, rendendo il Niger un luogo nevralgico per la guerra al terrorismo. A fronte dell’inoperatività per mancanza di fondi della Force G5 Sahel, l’unità speciale antiterrorismo, composta dal contingente militare africano e fortemente voluta dalle potenze estere, sono partite le missioni militari europee, prestando il proprio arsenale bellico e un numero ingente di soldati e veicoli stanziati in varie zone del suolo nigerino. Tale interventismo militare e le modalità della guerra al terrorismo portano con sé il rischio di destabilizzare ancora di più la situazione sociale, politica ed economica di paesi quali il Niger, rivelandosi più pericolose dell’obiettivo che vorrebbero distruggere. Ma ciò non ha fermato la spregiudicatezza dell’ex “madrepatria” francese, preoccupata di perdere il dominio sulle ex-colonie e a cui appartiene il più grande dispositivo militare nel Sahel. All’esercito francese si aggiunge quello americano, impegnato nella formazione delle forze di sicurezza nigerine, e, inaspettatamente, anche quello tedesco, nonostante sembrasse che il governo Merkel non volesse sottoscrivere un impegno militare al di fuori della Germania.
Nonostante il profilo discreto tenuto fino ad ora, è arrivato il momento anche per l’Italia di disporre i propri carrarmati, con tanto di bandiera, sul suolo nigerino. Al centro dell’agenda politica della penisola e della Comunità Europea c’è la questione migratoria, che si conferma essere l’interesse strategico dell’operazione militare.
Recentemente abbiamo assistito all’ampliamento del rapporto di cooperazione della missione regionale europea tra forze di polizia, l’Eucap-Sahel e la sopracitata dichiarazione di Gentiloni di dispiegamento militare in Niger a fianco dei francesi già presenti nel paese. Il tutto è in accordo con il ritmo crescente dei tentativi di esternalizzazione delle frontiere d’Europa, di cui gli accordi bilaterali e multilaterali con i governi e le milizie africane rappresentano una pericolosa costante dietro cui si cela lo spirito nazionalistico e concorrenziale delle potenze occidentali.
La convergenza tra dispiegamento di forze militari straniere e politiche di criminalizzazione della “catena” migratoria attuate dallo stato africano del Niger sta avendo degli esiti disastrosi sulla popolazione residente della regione e sui migranti stessi. Il desiderio di abbandonare un paese per motivi di povertà, discriminazione e persecuzione non può essere contenute dalla volontà esterna, e il risultato è che le rotte migratorie vengono forzatamente sostituite da percorsi più lunghi, pericolosi e costosi e tale ridefinizione ha l’effetto di spingere le persone nelle reti nei trafficanti, dello sfruttamento e dell’estorsione. In breve, il risultato è esattamente l’opposto di quello voluto da tali politiche, prefigurando uno scenario che già in passato, o nel recente passato, è stato visto in Turchia, Libia, Egitto e Marocco.
La convergenza d’interessi europei in Niger risponde a quelle logiche di potere securitarie e concorrenziali che agiscono per se stesse, secondo interessi particolari e, come sempre in questi casi, la posizione di forza delle potenze europee si muove su un piano di vantaggio militare ed economico. Ne sono una prova i progetti di supporto finanziario incentrati sulla sicurezza che, sotto il cappello dell’Eutf, il Fondo Fiduciario per lo sviluppo dell’Africa, elargiranno finanziamenti solo in cambio della stesura di provvedimenti nazionali contro la migrazione e in caso di mancata realizzazione di una delle condizioni previste, il paese interessato, in questo caso il Niger, dovrà pagare a sua volta delle ingenti somme.
Le politiche di militarizzazione delle rotte migratorie e di criminalizzazione dei migranti, accompagnate da scelte economiche irrazionali, mostrano la vera faccia dell’approccio alla questione della migrazione e della sicurezza: un approccio che ancora tenta di mettere il velo della cosiddetta “emergenza migranti” a quella crisi che ancora oggi i governi si ostinano a non voler riconoscere e toccare le cause reali.
Mentre nei palazzi degli organi di potere prendono forma, attraversando i continenti, le logiche del controllo, il flusso dei migranti continua a riscrivere e ridefinire la propria storia lungo le arterie di una parte del nostro mondo, portando con sé esperienze di vita, biografie e desideri mai circoscrivibili e sempre ingovernabili.
La militarizzazione del Niger tra interessi taciuti e mire neocoloniali