E fu così che da un bicchier d’acqua fuoriuscì un’alluvione.
Le basi sulle quali si fonda la pretesa di indipendenza catalana sono quantomeno effimere e tale idea, come da molti è stato detto ed è probabilmente vero, trae origine dalla prepotenza, se vogliamo, di un feudo ricco di non aver più nulla da spartire con le regioni più povere ed arretrate della Spagna e il non voler più pagare alcuna tassa alla Corona di Madrid, lontana geograficamente e politicamente. Nessuno in Europa ha avallato l’indipendentismo catalano – e neppure nel mondo – poiché all’inizio si trattava di poco più di un capriccio di pochi e di una schermaglia antifranchista (il dittatore dichiarò fuorilegge lingua, bandiera e cultura catalana, perseguendo e perseguitando chi sventolava la bandiera giallorossa); ma l’opinione pubblica cambia idea facilmente, soprattutto quando vede Polizia spagnola e Guardia Civil – civile solo nel nome – aggredire e caricare i votanti che il primo ottobre appoggiarono il si al referendum – illegale per la Spagna – sull’indipendenza della Catalogna.
Oltre a non aver mai accettato quella votazione, Madrid ha anche arrestato i politici sostenitori della causa indipendentista, escluso il caporal maggiore della battaglia, quel Carles Puigdemont che è scappato in Belgio, ufficialmente per riorganizzare la lotta, ufficiosamente per non finire dietro le sbarre. In seguito a quella elezione il Parlament Català è stato sciolto, e in settimana, si sono tenute le elezioni per ricostituirlo. Diversamente dal primo ottobre, questa volta l’influenza è stata alta (siamo intorno all’82%), similmente al primo ottobre gli unionisti sono stati annientati. Unità Popolare, Sinistra repubblicana e Junts per Catalunya, i tre partiti indipendentisti, raccolgono insieme 70 seggi; in Catalogna ne bastano 68 per avere la maggioranza assoluta. In sostanza, dunque, saranno ancora gli indipendentisti a governare la regione, per cui la crisi è tutt’altro che risolta o terminata, anche se, d’altra parte, è impossibile non prendere atto dell’ottimo risultato dei centristi liberali di Ciudadanos, che da soli ottengono 36 seggi – miglior risultato individuale – diventando la principale forza d’opposizione, grazie soprattutto alla trionfale discesa in campo non tanto di Albert Rivera, giovane ed ambizioso leader nazionale del partito e barcellonese di nascita, seppur mai troppo apprezzato nella capitale catalana, bensì della sua seconda: Ines Arrimadas, vertice regionale del partito, astro nascente della politica spagnola, applaudita in ogni dove e stimatissima dagli unionisti di Catalogna, anche se andalusa di nascita. Non bisogna infatti dimenticare che, comunque, c’è una buona fetta di unionisti anche a Barcellona; perché non tutti i catalani sono indipendentisti e ve ne sono numerosi che si sentono spagnoli, molti di più del manipolo che acclamava Arrimadas in Plaça d’Espanya (luogo scelto non a caso, ovviamente, mentre gli indipendentisti esultavano in Plaça de la Catalunya), a Barcellona l’altroieri, cantando “Presidenta! Presidenta!” E soprattutto “Siamo spagnoli – siamo spagnoli”. Queste persone hanno votato in massa il partito arancione di Ciudadanos, dimenticando il partito popolare di Mariano Rajoy – da una cui costola nacque la scommessa politica di Rivera – che è il grande, ma diciamo pure gigantesco, sconfitto di questa tornata elettorale. Per i popolari solo la miseria di 3 seggi alle elezioni catalane, un numero che non consente loro neppure di scegliere quale caffè ordinare. Inutile sottolineare come questo risultato sia il minimo storico per quello che in Spagna, comunque, nonostante non pochi alti e bassi, resta il partito più votato.
Per completezza d’informazione va detto che la sinistra, mai debole in Catalogna, si attesta sugli 8 seggi di Podemos – En Comù, partito di Ada Colau, sindaco di Barcellona, e i 17 parlamentari del PSC. Va tenuto presente che nessuno di questi due partiti è mai stato indipendentista, seppure entrambi si siano impegnati per allargare le autonomie dei cittadini catalani, mantenendo probabilmente la linea più intelligente e ragionevole all’interno di questa delicata questione, ma di certo non la più premiata dai votanti.
In definitiva dunque, numeri a parte, il potere spagnolo è uscito a pezzi da queste votazioni (anche Ciudadanos infatti è un partito piuttosto lontano dall’establishment rappresentato a Las Casas), e il già convalescente Rajoy ha ricevuto un colpo probabilmente da ko, reso ancor più bruciante dall’altissimo dato sull’affluenza – non si ricordano elezioni così partecipate in Catalogna. Il destituito Puigdemont, esule in Belgio se così vogliamo definirlo, ha dunque una legittimità popolare indiscutibile dopo aver cancellato dall’organico politico catalano Xavier Albiol, candidato popolare in Catalogna, la cui promessa di spazzare via gli indipendentisti è ora praticamente una gag da spettacoli comici, a Barcellona, tale è stata la dimensione della sua sconfitta.
Nonostante la decapitazione giudiziaria dei movimenti indipendentisti, le incriminazioni di ogni leader repubblicano, le minacce ai votanti, le manganellate agli elettori, i presidi armati ai seggi e l’emanazione di un mandato di cattura dopo l’altro, i secessionisti si sono imposti di nuovo, e ora sarà piuttosto difficile continuare a fare orecchie da mercante alle loro richieste, a Madrid come a Bruxelles. Queste elezioni, inoltre, potrebbero rappresentare un vero e proprio tsunami per Rajoy e convincere Rivera, a guida del secondo partito nazionale, a spingere per mettere alle corde il premier spagnolo, accelerandone uscita di scena e tramonto politico per insediare la sua figura a Madrid o, come oggi appare più probabile, quella di Ines Arrimadas, al momento ben più convincente ed attraente del suo leader di partito, il quale appare al suo cospetto abbastanza meno brillante, prima che nettamente meno avvenente.