Eni e Shell e 13 tra manager, politici e intermediari sono stati rinviati a giudizio con l’accusa di corruzione internazionale per l’acquisizione del blocco petrolifero offshore nigeriano OPL 245, per cui le due società nel 2011 hanno pagato 1,1 miliardi di dollari.

A salire sul banco degli imputati saranno, tra gli altri, l’attuale amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni, il Chief Operation and Technology Officer della multinazionale italiana Roberto Casula, quattro top manager Royal Dutch Shell tra cui Malcolm Brinded, ex direttore esecutivo per Upstream International, e l’intermediario Luigi Bisignani. Nessuna società di grandi dimensioni come la Royal Dutch Shell o suoi dirigenti hanno mai subito un processo per reati di corruzione. È stato rinviato a giudizio anche l’ex ministro nigeriano del Petrolio, Dan Etete.

Questa decisione storica fa seguito al sorprendente cambio di posizione della Shell dello scorso aprile, allorché la corporation ha ammesso di essere stata a conoscenza di come il pagamento di oltre un miliardo di dollari per la transazione fosse destinato a Dan Etete, già condannato per riciclaggio di denaro.

Le indagini dell’ufficio del pubblico ministero milanese sono state innescate da una denuncia presentata nell’autunno del 2013 da Re:Common e della organizzazioni britanniche Global Witness e The Corner House. Esposti analoghi sono stati presentati in Nigeria e negli Stati Uniti. Sul caso stanno indagando anche i magistrati olandesi.

Antonio Tricarico di Re:Common ha così commentato la notizia del rinvio a giudizio. “L’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi si sbagliava, quando nel 2014 difese a spada tratta l’amministratore delegato dell’Eni, appena nominato dal governo, avvertendo che ‘non avrebbe consentito che tanti posti di lavoro fossero messi in pericolo da un mezzo scoop, né che un avviso di indagine pubblicato sui quotidiani potesse cambiare la politica commerciale di un Paese’. Se quanto sembra sia accaduto accaduto con l’affare OPL 245 rappresentasse la linea di condotta standard della più grande multinazionale italiana controllata dal governo, i magistrati hanno tutto il diritto di svelare la verità e di assicurare alla giustizia i responsabili, mentre Renzi dovrebbe chiedere scusa ai cittadini italiani e nigeriani”.

“Il popolo nigeriano ha perso più di un miliardo di dollari a causa di questo affare corrotto, l’equivalente dell’intero bilancio annuale della sanità del Paese. I nigeriani meritano di sapere la verità su che cosa è successo a questi fondi. Ci congratuliamo con i pubblici ministeri di Milano per il loro esaustivo lavoro di indagine, che ha portato a questo processo. Sarà il più grande nella storia delle multinazionali e un monito chiaro a chi vede la corruzione come una scorciatoia per guadagni facili”, ha dichiarato Simon Taylor, co-fondatore di Global Witness.

Secondo il Wall Street Journal, i magistrati italiani ritengono che “Claudio Descalzi, allora capo del dipartimento esplorazione, e Paolo Scaroni, amministratore delegato di Eni, sapevano che il conto di deposito di garanzia intestato al governo nigeriano era solo di passaggio per poi far transitare il denaro su un conto controllato da Dan Etete, il quale era il reale destinatario della maxi-tangente. Le relazioni sulla due diligence commissionate da Eni durante il processo di negoziazione confermano che la società sapeva sin dalle prime fasi del coinvolgimento di Etete. Una relazione del 2010 afferma esplicitamente che: “qualunque sia la struttura formale di proprietà di Malabu, tutte le fonti con cui abbiamo parlato sono del parere che Dan Etete sia il reale proprietario della società”. Ad oggi Eni continua a negare di aver saputo del coinvolgimento di Etete. I pm milanesi sostengono inoltre che del denaro sia stato fatto pervenire a dirigenti di Eni e Shell, dal momento che 50 milioni di dollari sono stati consegnati all’allora capo delle attività per l’Africa sub-sahariana dell’Eni, Roberto Casula.

“Non è un semplice caso che riguarda poche mele marce”, ha dichiarato Nicholas Hildyard di The Corner House. “Le prove mostrano una corruzione sistemica a partire dai vertici delle società. L’Italia ha dato l’esempio nell’applicare lo stato di diritto contro gli abusi di potere delle multinazionali. Il mondo aspetta di vedere se il Regno Unito e i Paesi Bassi, dove ha sede la Shell, avranno il coraggio di fare lo stesso”.

Nel dicembre 2016, la Procura di Milano ha affermato che 520 milioni di dollari relativi al pagamento dell’affare Opl 245 sono stati poi girati al presidente nigeriano Goodluck Jonathan e a esponenti e alti funzionari dell’esecutivo nigeriano.

Le autorità nigeriane hanno mosso accuse contro le sussidiarie locali di Shell e l’Eni nonché nei confronti di alcuni loro dipendenti. Lo scorso gennaio anche Mohammed Adoke, l’ex ministro della Giustizia nigeriano, è stato accusato di aver riciclato una somma di denaro di oltre 2,2 milioni di dollari, somma sempre collegata alla transazione incriminata.

“Questo caso rappresenta l’alba dell’età della responsabilità, in un mondo in cui anche le società più potenti non possono più nascondere le loro malefatte ed evitare il giusto corso della giustizia”, ha commentato Lanre Sujaru, presidente dell’organizzazione nigeriana Human Development Agenda.

 

Caso OPL 245, Eni e Shell rinviate a giudizio per la tangente del secolo

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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