Canone è una parola che ha una storia che merita di essere raccontata. In greco antico il κανών era il regolo, il bastone di legno – è la stessa radice di canna – usato dagli artigiani come unità di misura. Ma già in Omero questa parola viene usata in senso figurato per indicare una norma e questo significato ha avuto una particolare fortuna. Eusebio di Cesarea, che fu il primo storico della chiesa nascente, prima di diventare eretico, chiamò canoni le tabelle, ideate da lui, in cui raccolse i passi concordati dei vangeli. Nel codice teodosiano canone indica l’ordinamento dei tributi in natura delle province e quindi così viene chiamata nella nostra lingua la prestazione, in denaro o in natura, che viene corrisposta a intervalli determinati di tempo come corrispettivo del godimento di un bene. In italiano il canone per eccellenza è quello che ciascuno di noi paga in ottemperanza al regio decreto del 1938 in cui è contenuta la “disciplina degli abbonamenti alle radioaudizioni”.
In linea di principio io sono favorevole a pagare il canone: basta che ci mettiamo d’accordo sul perché ce lo fanno pagare.
Se si tratta – come ormai è diventato in Italia – di una tassa sul televisore – indipendentemente che venga utilizzato o meno – allora è una forma di patrimoniale e, visto che io sono comunista, credo che le patrimoniali siano sacrosante. Sono abbastanza ricco da possedere un bene, specialmente un bene di cui potrei fare a meno? Allora devo pagare qualcosa di più rispetto a chi non possiede quel bene. Magari piuttosto che far pagare la patrimoniale sul televisore sarebbe più giusto far pagare il canone su qualche altro elettrodomestico ancora più inutile, ad esempio l’apparecchio che prepara gli hot dog: se compri una boiata del genere è giusto che tu paghi una tassa più alta. Poi in questo paese le patrimoniali sono applicate in maniera ingiusta: la pagano le fasce più povere, ad esempio sul possesso del televisore e dell’automobile, e non la pagano i ricchi e i ricchissimi sui loro patrimoni e sui loro beni di lusso. Come sapete, io trovo ingiusto che anch’io – che pure non sono ricco – non paghi una patrimoniale sulla mia casa. Possiedo una casa e sono più ricco di chi non la possiede: quindi dovrei pagarla. Non a caso i governi culturalmente di destra che si sono succeduti in questo ultimo tragico venticinquennio – al di là del falso bipolarismo di facciata – hanno tolto la tassa sulla casa, perché sono contro ogni forma di patrimoniale, a parte ovviamente quelle che colpiscono i poveri.
Se invece il canone fosse una tassa sulla televisione – sul contenuto e non sul contenitore – non capisco perché devo pagarla. Lo farei volentieri se quei soldi servissero a finanziare una televisione pubblica che non avesse altra entrata oltre questa, ma evidentemente non è quello che succede adesso in Italia. La Rai non solo vende pubblicità, ma soprattutto gestisce i propri palinsesti e produce i propri programmi per venderne di più, come una qualsiasi rete commerciale: si tratta ovviamente di una scelta legittima che io, da spettatore, posso apprezzare o meno, ma che, da cittadino, non voglio finanziare.
Non entro nel merito di quello che la Rai produce e trasmette, visto che la guardo sempre meno: l’ultimo telegiornale l’ho visto nel dicembre del 2012, i programmi di cosiddetta informazione ho smesso di guardarli da molto prima. Per dovere di cronaca non guardo neppure quelli trasmessi dalle reti commerciali. Guardo regolarmente i programmi di Rai5 e i cartoni di Rai Yoyo – ma non mi piace Peppa Pig – e ascolto molto i canali radio della televisione di stato. Non prendetemi per uno di quegli snob che dicono – mentendo – che non guardano la televisione, io la guardo: mi piacciono i telefilm polizieschi – il crime come si chiama adesso – e non disdegno programmi che definireste certamente trash. La televisione è uno dei modi in cui trascorro il mio tempo libero: e non capisco perché devo pagare una tassa su questo.
Anche perché pago già, accettando di guardare la pubblicità – non ho il decoder e non guardo canali a pagamento – così come so che posso usare gratuitamente la rete – un altro modo in cui passo il mio tempo libero – accettando che vengano utilizzati i miei dati di navigazione e tollerando le inserzioni pubblicitarie. Pago per la televisione quando a vado a fare la spesa, perché ovviamente il costo della pubblicità ci viene imputato insieme a quello dei prodotti, così come quello degli imballaggi inutili. E non voglio pagare due volte per la stessa cosa.
Al di là di una boutade di campagna elettorale, credo che dovremmo ragionare se debba ancora esistere una televisione pubblica e quindi a carico della collettività. La Rai che ricordiamo più volentieri – e che alimenta ancora oggi i programmi che ne saccheggiano i magazzini – è quella che viveva in regime di monopolio e quindi poteva permettersi di non assoggettarsi al mercato. Certo doveva sottostare ad altri vincoli – spesso molto pesanti e non sempre commendevoli – ma in fondo quel monopolio era anche un segno di libertà: si poteva sperimentare e perfino correre il rischio che un programma non avesse successo. Non c’era altro da vedere. La tecnologia, spezzando quel monopolio, ha apparentemente portato una maggior libertà, ma ha anche omologato l’offerta, rendendo spesso indistinguibile una rete dall’altra.
Pur essendo un vecchio statalista, a questo punto credo che abbia poco senso una televisione di stato che, alla fine, non garantisce né la pluralità delle opinioni – e questa non era garantita neppure dalla Rai democristiana – né la qualità dell’offerta – che invece allora era garantita; e in maniera molto alta. Anzi rispetto alla qualità temo – parlo sempre da comunista – che il mercato ci garantisca di più, perché alla fine una serie scritta e girata bene sarà più vista e quindi venderà più detersivi di una mal fatta, un programma di intrattenimento intelligente avrà più audience di uno volgare. Certo la roba brutta continuerà a esserci in televisione, come i brutti romanzi d’appendice continuarono a essere pubblicati nel secolo scorso, ma ora tutti i brutti romanzi sono dimenticati e noi leggiamo ancora Pinocchio e Uno studio in rosso, come i nostri figli vedranno ancora le serie più belle che guardiamo noi ora. Indipendentemente dal canone.
E francamente non so se, a questo punto, una televisione pubblica senza pubblicità e tenuta in piedi solo con il canone sarebbe utile, sarebbe uno spazio libero in cui far crescere idee nuove. Certamente in Italia non funzionerebbe così, sappiamo già che sarebbe ancora una volta un mezzo per aiutare gli amici, gli amici degli amici, e al massimo per garantire un po’ di soldi a qualcuno, una sorta di welfare mascherato. Credo però che anche in una società più virtuosa della nostra le novità si sperimenterebbero da altre parti, perché oggettivamente la rete dà possibilità che prima non avevamo e soprattutto dà a chi è capace un pubblico che un tempo solo la televisione sapeva garantire.
Al di là delle promesse demagogiche di questi giorni, continueremo naturalmente a pagare il canone – siamo obbligati a farlo, altrimenti ci tagliano la luce – e a guardare buona televisione. Questo è più difficile perché dipende soprattutto da noi, dalla nostra capacità di esercitare uno spirito critico, di scegliere quello che è fatto bene, a scapito di quello che è fatto male. Dovremo usare la nostra intelligenza e darci un po’ di strumenti, dovremo darci un canone.
se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…