Ancora impunito l’assassinio di Giulio Regeni. Mentre Egitto e Italia fanno il gioco della disinformazione per favorire le buone relazioni tra i due paesi

di Marina Zenobio

IL MURALE DI EL TENEEN PER GIULIO REGENI, A BERLINO

Giulio Regeni avrebbe compiuto 30 anni la settimana scorsa se la sua vita non fosse stata interrotta a poco più di 28. Due anni dopo la sua scomparsa forzata e la sua successiva uccisione, le indagini sulla sua morte sono ad un punto morto.

Da quanto è stato trovato il suo corpo torturato, dieci giorni dopo la scomparsa, le teorie cospirative e la disinformazione sono state la costante. Pochi dubitano sulle responsabilità delle forze di sicurezza egiziane nella morte e le torture di Regeni, ma chiunque abbia tentato di togliere il velo su questa verità ne ha pagato prezzo, perché in un paese dove le scomparse forzate e la tortura sono la norma, chiunque potrebbe fare la fine di Giulio. E in tanti l’hanno fatta.

L’avvocato egiziano della famiglia Regeni, Ibrahim Metwaly, è stato sequestrato proprio mentre era in partenza per rilasciare una dichiarazione sul caso davanti la commissione dell’Onu. Qualche giorno dopo apparve di nuovo, ma per rispondere alle pesanti accuse del governo egiziano secondo cui Metwaly “era in contatto con entità straniere per danneggiare la sicurezza nazionale”.

“Siamo ancora molto lontani dalla verità” ha dichiarato alla stampa Ricardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia aggiungendo che “La cooperazione del governo egiziano è inefficiente e quella italiana non è migliore”.

“Sto uscendo”. E’ l’ultimo messaggio di Giulio alla fidanzata, erano le 17 e 41 del 25 gennaio 2016. Una data importante. Il 25 gennaio del 2011 gli egiziani si sollevarono contro il regime di Hosni Mubarak il cui principale pilastro, come quello del regime che l’avrebbe seguito di Abdelfatah al-Sisi, era l’Esercito. Da allora, tutti coloro che hanno governato, dalla Giunta militare prima, all’islamista Morsi e oggi il maresciallo al-Sisi, si sono occupati di creare le condizioni per non favorire un nuovo clima “rivoluzionario”. Ogni anno si silenzia qualsiasi tentativo di protesta, e il giorno in cui Giulio è scomparso non è stato diverso: enormi misure di sicurezza per tenere tutto sotto controllo, tutto. In questo clima il ricercatore sparisce. Il suo corpo martoriato dalle torture sarà trovato sette giorno dopo. Piedi e mani rotti, lettere incise sulla pelle e bruciature di sigarette. Una tecnica di tortura, quest’ultima, che è la firma dei servizi di sicurezza egiziani.

Fin da subito l’Egitto ha provato a sviare l’attenzione sulle indagini. Noury denuncia che sono state divulgate storie false e offensive su Giulio. Prima parlarono di un incidente stradale, poi di una storia legata alla droga, poi ancora che era un omosessuale e, in quanto tale, rimasto vittima di un crimine passionale. Alla fine provarono ad accusare Regeni di essere una spia pagata per danneggiare le relazioni commerciali tra Italia e Egitto.

Un mese dopo la scomparsa di Giulio, la polizia egiziana fece uscire la pista del sequestro a scopo di estorsione. Identificò anche una banda, ma non furono mai interrogati perché, secondo la versione ufficiale, morirono durante uno scontro a fuoco con la polizia. Ma a nessuno convinse questa storia, evidente cortina di fumo che nasconde tutti gli assassini extragiudiziali tanto comuni in Egitto.

“E’ un assassinio di Stato”, continua ad insistere il rappresentante di Amnesty, “con la connivenza delle agenzie di sicurezza e almeno nove o dieci persone coinvolte direttamente nella scomparsa e nell’uccisione di Giulio” e la mancanza di fermezza da parte del governo italiano.

Nel settembre del 2017 l’Italia ha rimesso al suo posto l’ambasciatore al Cairo, prima ritirato come forma di pressione. Un grave errore, secondo Noury, perché “L’Italia avrebbe dovuto rivedere le relazioni con l’Egitto, esercitare pressioni, anche sulla Commissione contro la tortura dell’Onu. Avrebbe dovuto insistere nel chiedere la verità sul caso Regeni, che rappresenta ciò che accade a centinaia di egiziani anonimi”. Invece sembra ci sia una volontà reciproca, tra Italia e Egitto, di sviare l’attenzione per favorire le relazioni politico-commerciali tra i due paesi. E gli interessi in gioco sono enormi.

L’indagine sui sindacati egiziani, che Regeni stava portando avanti per il suo dottorato, sembra essere ciò che lo ha messo sotto il radar delle forze di sicurezza locali. Le unioni dei lavoratori indipendenti sono considerate una minaccia dal regime. Il primo si era formato nel 2009, e dopo la rivolta che spodestò Mubarak nel 2011 ne nacquero più di mille. Fino ad allora i sindacati, tutti sotto controllo governativo, erano solo entità per controllare le masse e prevenire rivolte.

Sono state proprio le rivolte del 2011 a dare impulso al movimento sindacale e alla formazione della prima federazione di sindacati indipendenti. Questo germe, secondo gli esperti, come lo stesso Regeni, è un patrimonio per il cambiamento che favorisce la partecipazione democratica, rafforza la società civile e i lavoratori, qualcosa che certamente non interessa un regime che aspira a perpetuarsi nel potere.

Un italiano, che parla arabo e chiede ai venditori ambulanti di politica, economia e che discute di diritti, non passa inosservato al ben nutrito gruppo di informatori della polizia che infettano il Cairo. Hanno così deciso di farlo scomparire, probabilmente consapevoli delle proteste che ne sarebbero seguite in Italia e a livello internazionale, ma altrettanto consapevoli che in nome degli interessi economici le relazioni tra i due paesi sarebbero tornati presto alla normalità, come è accaduto.

L’ultima manovra dei due governi è stata quella di screditare Maha Abdelrahman, la professoressa di Cambridge che supervisionava la tesi di dottorato del giovane friulano. Abdelrahman è una esperta ed ha scritto molto sui movimenti sociali e di protesta in Egitto, inoltre è un personaggio molto critico con i governi militari, e nel 2015 ha scritto sul reclutamento di informatori di polizia tra cittadini comuni.

Abdelraham è stata accusata di non collaborare alle indagini, di aver spinto e incoraggiato Giulio a fare ricerca sui sindacati indipendenti. E’ vero, all’inizio rifiutò di consegnare agli investigatori le sue email e i messaggi intercorsi con Giulio, e tutto questo è stato usato per fabbricare sospetti sulla professoressa. Tuttavia, in un contesto di repressione come quello egiziano il suo comportamento può essere comprensibile. Chi conosce così bene il modus operandi della polizia egiziana, e date le circostanze e lo stato in cui è stato ritrovato il corpo di Regeni, non vorrebbe collaborare con i possibili responsabili della sua morte.

Maha Abdelrahmn non parla con i giornalisti, ma avrebbe detto ai suoi colleghi di Cambridge di aver collaborato con la polizia italiana il giorno del funerale di Giulio. La settimana scorsa, dopo che le sono stati confiscati cellulare e computer, l’Università di Cambridge è uscita allo scoperto. Il vice direttore Stephen Topp, in una lettera alla comunità accademica, ha affermato che “l’Università rifiuta ogni accusa secondo cui Abdelrahman sarebbe responsabile di aver messo lo studente italiano in pericolo”, precisando che che si tratta di speculazioni “inesatte, dannose e pericolose”
Per Noury le accuse contro la professoressa rappresentano un ulteriore tentativo per distrarre l’attenzione dai veri colpevoli.

Due anni senza giustizia per Giulio Regeni

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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