Il dominio crescente del capitale sul lavoro è figlio anche della storica subalternità della socialdemocrazia al pensiero economico mainstream.
Scrive Marta Fana, ricercatrice in economia presso l’Institut d’Études Politiques di Sciences Po a Parigi, che il risultato a cui si è ormai pervenuti nel mondo del lavoro, nel rapporto tra lavoratore e impresa, “è l’avanzare di forme di sfruttamento sempre più rapaci che pervadono ogni settore economico, con labili differenze tra lavoro manuale e cognitivo” [1]. Come si può darle torto? La svalorizzazione del lavoro a cui assistiamo da qualche decennio è progredita di pari passo con la valorizzazione del capitale. I rapporti di produzione favorevoli al capitale si manifestano ad esempio nell’intensificazione dei ritmi di lavoro, nel ricorso a forme estese di precarietà, alla possibilità di spostare la produzione dove la mano d’opera costa meno. Un ricatto costante sui lavoratori che consente la riduzione dei costi di produzione e scambio delle merci, che si traduce in una distribuzione della ricchezza prodotta sempre più favorevole alla crescita del profitto e sempre più svantaggiosa per il lavoro. In sintesi, il dominio crescente del capitale sul lavoro si manifesta in maniera immediata nella distribuzione della ricchezza, aggravando le disuguaglianze.
Alcuni dati a sostegno di questa descrizione ci vengono da Eurostat, che mostra “forti disparità nella distribuzione dei redditi”. Gli ultimi dati statistici evidenziano come “considerando la media dei dati nazionali di ciascuno degli Stati membri dell’UE ponderata in base alla popolazione, i redditi percepiti dal 20% della popolazione con i redditi disponibili equivalenti più elevati risultano superiori di 5,2 volte a quelli percepiti dal 20% della popolazione con i redditi disponibili equivalenti più bassi” [2]. Ora, dal momento che la sfera della distribuzione della ricchezza è un indicatore di quanto i rapporti di lavoro siano sfavorevoli ai lavoratori, essendo quella distribuzione una conseguenza dei rapporti di produzione, è evidente come essa sia un indicatore dell’esistenza di una classe lavoratrice che si oppone a quella dirigente, cioè dell’esistenza di una classe lavoratrice (che quindi non è affatto scomparsa, come troppo spesso viene detto [3]) contrapposta a quella capitalista.
Non è un caso che le diseguaglianze siano cresciute praticamente ovunque soprattutto a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso e si siano allargate ulteriormente con la crisi economica scoppiata nel 2008. Si parla dei cosiddetti “trent’anni pietosi” [4], quando fu messo in campo il progressivo smantellamento dell’impianto di politica economica costruito attraverso le lotte operaie e la visione del mondo propria della sinistra socialdemocratica si arrese a quella thatcheriana secondo la quale “la società non esiste. Esistono gli individui” e pertanto “il governo non può fare niente”. Viene rotto il legame solidaristico che aveva condotto le lotte dei lavoratori fino a quel momento, perché – continuava Margaret Thatcher – “le persone devono guardare per prime a sé stesse” e solo poi, eventualmente, “badare anche ai nostri vicini”, ma comunque senza mai comportarsi da persone che “pensano troppo ai diritti senza ricordarsi dei doveri”.
Un esempio di quanto palese sia subito stata la subalternità della sinistra socialdemocratica europea al pensiero economico dominante, viene dall’Italia. Qui, il presidente del Consiglio Giuliano Amato, già socialista ed aderente al Partito Democratico, vantava per il centrosinistra l’aver effettuato “il più cospicuo taglio del costo del lavoro realizzato in Europa”, dove pure la socialdemocrazia aveva prodotto provvedimenti che progressivamente hanno smantellato il modello di Stato sociale europeo. D’altronde, il primo segretario del Partito Democratico, Walter Veltroni, che ha sempre avuto come riferimenti politici Blair e Clinton, fin dalla nascita del suo partito sosteneva la necessità di un passaggio dallo “Stato sociale delle garanzie” allo “Stato sociale delle opportunità” [5]. Non è forse una subordinazione all’idea thatcheriana del governo che “non può fare niente”?.
L’opportunità di maggiore guadagno per i lavoratori, e di conseguenza di un miglioramento delle proprie condizioni economiche e sociali, passa perciò, in questo modo, per diritti legati ai doveri nei confronti dell’impresa, la cui centralità non è mai messa in discussione. Pertanto, è il diritto ad una vita dignitosa ad essere messa in subordine alla redditività di impresa, da perseguire attraverso una maggiore produttività, perché solo attraverso questa si può anche aumentare il reddito dei lavoratori. Ma sappiamo, con Marx, che per questa via, quand’anche il salario aumentasse, comunque “si approfondisce l’abisso sociale che separa l’operaio dal capitalista”, dal momento che “aumenta il potere del capitale sul lavoro, la dipendenza del lavoro dal capitale” [6], peggiorando, così, la situazione sociale dei lavoratori. Ed ha davvero poco senso minimizzare la portata di questo oggettivo e generalizzato peggioramento delle condizioni dei lavoratori con la supposta scomparsa degli operai nelle fabbriche. Non solo perché la parcellizzazione del processo produttivo non ha affatto eliminato la classe operaia, rintracciabile nei mille volti che la frammentazione del lavoro ha assunto (dall’operaio della FCA al centralinista di Almaviva, dal magazziniere di Amazon al fattorino di Foodora e via di questo passo); ma anche perché, come aveva lucidamente intuito già molto tempo fa Raniero Panzieri, anche laddove si riconosca la nascita di nuove mansioni “che sarebbero qualificate da responsabilità, capacità di decisione, molteplicità di preparazione”, nel momento in cui “lo sviluppo delle tecniche e delle funzioni connesse al management” vengono isolate dal concreto contesto sociale, si perde di vista il “crescente accentramento di potere capitalistico” [7]. È quanto avviene ancora oggi, così che dietro la supposta neutralità ed oggettività dello sviluppo tecnologico si nasconde, tanto per fare un esempio, il vero e proprio sfruttamento dei magazzinieri di colossi dell’e-commerce, come Amazon [8].
Le conseguenze di quell’accentramento sono visibili in vari aspetti del lavoro odierno: dallo sfruttamento nei campi di pomodori alla intensificazione e densificazione del lavoro; dalla crescita dello stress da lavoro agli infortuni spesso mortali; alla precarietà diffusa che tende alla sua generalizzazione attraverso lo smantellamento delle tutele dei lavoratori. Un tallone di ferro che spinge sempre più profondamente i lavoratori in una condizione sociale estremamente instabile. Si tratta di una situazione che non riguarda uno specifico Paese. Solo tre anni fa il rapporto Accessor (acronimo di Atypical Contracts and Crossborder European Social Security Obligations and Rights) elaborato dall’Inca Cgil, tracciò un quadro allarmante sulle nuove forme di contratto atipico che si sono sviluppate in 8 paesi europei: Regno Unito, Germania, Svezia, Spagna, Italia, Belgio, Slovenia e Francia. Il rapporto dell’Inca evidenziò come “già nel 2005 un lavoratore su quattro era impiegato con un contratto di lavoro atipico o molto atipico, o semplicemente senza contratto. E diversi studi, anche della Commissione europea, concordano sul fatto che durante la crisi questa dimensione del lavoro non abbia fatto che aumentare (European Commission, 2013), e che quindi l’occupazione sia complessivamente più precaria oggi che nel 2005 o nel 2007 (Working Lives Research Institute, 2012)” [9]. Non sono casi estremi, quindi, i mini jobs tedeschi o il lavoro gratuito nascosto dietro l’alternanza scuola-lavoro in Italia.
Contro la teoria dominante che, come Marx aveva intuito, sono le idee della classe dominante [10], la tanto decantata flessibilità descritta come elemento neutrale, oltre che oggettivo e necessario per rispondere alla flessibilità della società, non ha affatto portato ad uno sviluppo verso l’alto, omogeneo e generalizzato, delle condizioni di vita e di lavoro. Semmai, il risultato è una polarizzazione dei lavoratori, verso l’alto e verso il basso, che si manifestano nelle crescenti disuguaglianze socio-economiche di cui si parlava sopra. Né si deve sottovalutare che quelle stesse disuguaglianze impediscono l’indipendenza politica di chi si trova ingabbiato nelle classi sociali più vulnerabili.
È allora impossibile un rovesciamento delle condizioni esistenti? Oggi, certo, è venuta meno, in molti casi, la grande fabbrica capace di riunire fisicamente i lavoratori. Ma allora vale oggi più di ieri la necessità di rintracciare i fattori “di caratterizzazione oggettiva dei diversi strati dei lavoratori nel processo produttivo”, per dirla col Panzieri [11]. Perché solo a partire da questa analisi è possibile ricomporre pezzi della frammentazione di classe che scientemente le classi dominanti tentano continuamente di produrre, per individuare così i nervi scopertidell’attuale catena del valore [12], così che si possa formare quella “forza unitaria di rottura che tende a investire in tutti i suoi aspetti l’attuale realtà tecnologico-organizzativa-proprietaria” [13] dell’odierna organizzazione e divisione del lavoro capitalistica.
Note:
[1] M. Fana, Non è lavoro, è sfruttamento, Laterza, 2017
[2] Eurostat, Statistiche sulla distribuzione del reddito, febbraio 2017
[3] C. Tomeo, Ci dispiace per voi, ma la classe operaia esiste, lacittafutura.it
[4] A. Barba, M. Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Imprimatur, 2016
[5] citazioni riportate da P. Ciofi, Il lavoro senza rappresentanza, Manifestolibri, 2011
[6] Marx, Lavoro salariato e capitale
[7] R. Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Einaudi, 1976
[8] J.B. Malet, “En Amazonie”. Un infiltrato nel “migliore dei mondi”, Kogoi Edizioni, 2013
[9] Inca Cgil, Il “posto” del lavoro atipico, nel coordinamento dei sistemi di sicurezza in Europa: un’analisi comparativa transnazionale, 2014
[10] Secondo la tesi elaborata da Marx ne L’ideologia tedesca, per cui “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio”.
[11] R. Panzieri, op. cit.
[12] C. Tomeo, Sciopero SDA e ruolo strategico della logistica, lacittafutura.it
[13] R. Panzieri, op. cit.
03/02/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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