[Questa storia verrà raccontata da Wu Ming 2 e Matteo Petracci il 16 febbraio al Vag61 di Bologna, h.21 (evento Facebook qui), e da Wu Ming 2 il 24 febbraio alla Biblioteca Saffi di Forlì, h.20:30.]
Settantaquattro anni fa, alle pendici del Monte San Vicino, in provincia di Macerata, combatteva il nazifascismo una delle prime formazioni partigiane d’Italia: la banda “Mario” di San Severino Marche.
Il comandante, Mario Depangher, era nato a Capodistria nel 1897 e già a quattordici anni si era iscritto al Movimento Giovanile Socialista. Dopo vent’anni passati tra scioperi, arresti, espatri e clandestinità, si ritrovò nel ’32 al confino di Ponza, con Sandro Pertini, poi a Ventotene, e infine internato a San Severino. Qui, poco dopo la caduta di Mussolini, cominciò a organizzare un gruppo di antifascisti armati. Già il 14 settembre, sei giorni dopo l’Armistizio, attaccavano un deposito di munizioni, prelevando bombe a mano, caricatori e granate per mortai da 45.
Ogni brigata o compagnia partigiana ha le sue caratteristiche, spesso legate al territorio quanto il sapore di un vino, oppure all’indole di alcuni individui di particolare carisma. Quello che diventerà il battaglione “Mario” si distingue, nella storia della Resistenza italiana, per la provenienza dei suoi “patrioti stranieri”, come vennero indicati in alcuni documenti ufficiali, con un ossimoro molto significativo: erano britannici, francesi, polacchi, boemi, jugoslavi, sovietici, etiopi, somali ed eritrei. «A very mixed bunch» li definì John Cowtan, un soldato inglese che fece parte del gruppo.
Matteo Petracci, che da diversi anni insegue le tracce dei partigiani africani di San Severino, ha fatto notare che la foto in apertura e quella qui sotto, dimostrano che il battaglione “Mario” era ben consapevole della propria singolarità e intendeva conservarne la memoria, come si fa con una testimonianza importante.
Entrambe le foto sembrano studiate apposta per immortalare il «very mixed bunch», mettendo assieme, in un’unica immagine, il medico ebreo Mosé Di Segni, il cappellano Don Lino, il russo Ivan Dovgopolyj, l’ucraino Stepan Ponomarenko, il croato Frane Trlaja, il serbo Rajko Djurić, l’etiope Carletto Abbamagal… Quest’ultimo, nella seconda foto, compare appena, dietro la fila in piedi, oltre le spalle di Trlaja – in giacca e cravatta – e di don Lino. È facile immaginare che questo scatto sia in realtà il primo della serie, dopo il quale “Carletto” viene fatto accomodare al centro dell’inquadratura, come elemento imprescindibile di quella banda meticcia.
Per arrivare all’immagine “giusta”, insomma, il fotografo deve scattare due volte, consumare preziosa pellicola, e il risultato deve poi essere custodito e tramandato, con i rischi che questo comporta. Una fotografia del genere, oltre a incastrare chi la porta, può diventare molto pericolosa anche per quanti vengono ritratti.
Un discorso simile si potrebbe fare per altre due immagini, anche queste legate al medesimo evento fotografico, con i preparativi e poi l’esecuzione dello scatto ufficiale. Si tratta sempre del battaglione “Mario”, ma di un altro gruppo, quello che faceva capo all’ex-abbazia di Roti (Matelica).
Nella prima foto – dove anche il parroco punta la pistola verso l’obiettivo – i tre partigiani africani sono proprio dietro di lui, tutti insieme, ai margini dell’inquadratura. Nella seconda, si distribuiscono qua e là, in tre posizioni diverse, quasi a voler produrre, consapevolmente, un effetto visivo di maggiore mescolanza.
Non è un caso, quindi, se una delle due fotografie finali è stata utilizzata per illustrare una maglietta, corredata dalla scritta «Antirazzisti per costituzione». Forse i partigiani ritratti non pensavano di finire proprio su una T-shirt, ma in senso più largo è proprio a quello scopo che si misero in posa, davanti a una cascina del maceratese, più di settant’anni or sono.
Di certo non avrebbero immaginato che nel 2018, nel capoluogo di quella stessa provincia, un fascista avrebbe sparato a sei ragazzi africani, come se l’orologio della storia avesse girato a vuoto per decenni.
Il 24 febbraio, a Forlì, per il ciclo “Pratiche Meticce”, organizzato dal Centro “Diego Fabbri”, Wu Ming 2 racconterà la storia dei partigiani d’Oltremare del battaglione Mario, arricchita da tutte le più recenti scoperte d’archivio che Matteo Petracci ha messo a segno negli ultimi anni. Da dove arrivavano quei ragazzi africani? Come mai si unirono alla Resistenza? E che fine hanno fatto, dopo la Liberazione?
In seguito alla tentata strage di Macerata, e con un legame ideale alla manifestazione antirazzista del 10 febbraio, abbiamo pensato di dedicare a quel racconto anche una serata di Resistenze in Cirenaica, che riprende così le sue attività nel nuovo anno, come sempre al Centro sociale VAG 61, venerdì 16 febbraio, alle ore 21.
https://www.wumingfoundation.com/giap/2018/02/partigiani-africani-a-macerata/