La primavera 2019 e con essa le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo sono vicine. E, nonostante l’attenzione nostrana sia monopolizzata dal voto del 4 marzo, i tavoli politici per prepararsi a quest’appuntamento sono già aperti. Niente lista transnazionale, però, alle prossime Europee.
di Tiziana Barillà – Il Salto
Il Parlamento ha bocciato in plenaria a Strasburgo la proposta della commissione per gli Affari costituzionali che chiedeva l’elezione di un certo numero di eurodeputati in una circoscrizione elettorale a livello europeo.
La possibilità di farsi eleggere da tutto l’elettorato europeo con una campagna comune e partiti politici transnazionali è stata sostenuta, tra gli altri, dal presidente francese Emmanuel Macron e dal governo italiano. L’opzione è stata anche sostenuta caldamente da Yanis Varoufakis e il suo DiEM25, l’ormai quasi partito transeuropeo al quale si lavora da tempo e che, attraverso il suo co-fondatore e rappresentante italiano fa sapere: “Non c’è nessun problema. Perché noi non ci arrendiamo e rilanciamo. Stiamo lavorando per presentare una singola lista di candidati, con un programma comune e un’unica campagna elettorale coordinata in tutta Europa per il #2019”, ha scritto Lorenzo Marsili.
Alle elezioni del 2014 Alexis Tsipras funzionò come il collante per le sinistre d’Europa, dietro il suo nome la Sinistra europea (su suggerimento di Rifondazione comunista) si ricompattò e con l’84,1% dei consensi interni lo indicò come candidato presidente della Commissione europea. Persino la frammentatissima sinistra italiana dell’epoca riuscì a mettersi d’accordo tenendo il suo nome su simbolo e lista. L’Altra Europa con Tsipras, ricordate? E i risultati non andarono così male: le nuove leve e le vecchie coalizioni delle sinistre europee trovarono in Parlamento una casa comune con il Gue/Ngl che ancora oggi può contare 52 membri. Ma cinque anni dopo il nome di Alexis è ormai motivo – alibi? – di scontro e non di unità. E il Gue una casa con tutte le porte e le finestre aperte. Tra le correnti che soffiano forte, quella molto europeista incarnata dall’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis e quella del vecchio leone di Francia Jean-Luc Mélenchon, che non si fa alcun problema a parlare di rottura con l’Europa.
Mosse come queste paiono come il riscaldamento prima della salita vera e propria sul ring.
Melenchon vs Syriza
«La catena sta per crollare», scriveva Mélenchon nel 2015 alla vigilia del referendum greco, inneggiando al compagno Tsipras. Tre anni dopo a crollare sembra che siano i suoi rapporti con il partito greco. Il 31 gennaio scorso Mélenchon irrompe sulla stampa europea – non quella italiana, per carità! – chiedendo formalmente al partito della Sinistra europea di “buttare fuori” Syriza. «Per il Parti de Gauche, come senza dubbio molti altri partiti dell’EMP, è effettivamente diventato impossibile stringere le spalle, nello stesso movimento, a Syriza di Alexis Tsipras». Perché secondo il Parti de Gauche il primo ministro greco sta «rispondendo servilmente al diktat della Commissione europea».
La richiesta di esclusione, però, non è stata gradita, né tantomeno accettata dal presidente dell’Emp, Gregor Gysi: «Criticare la governance di Syriza in Grecia è legittimo e le opinioni su questo argomento sono diverse anche per la sinistra europea. Ma la politica del governo di Syriza è in gran parte contrassegnata dal ricatto della troika e del governo tedesco. Il nostro punto di forza è ammettere i conflitti, promuovere dibattiti, non espulsioni. Se questa strada fosse stata scelta, il partito della sinistra europea non sarebbe cresciuto». Ancora più accesi i toni tra connazionali: «Di fronte al macronismo europeo e all’ascesa dell’estrema destra, dobbiamo unire le forze di sinistra radicali che sono diverse, hanno politiche nazionali diverse e culture diverse».
La reazione arrabbiata dei comunisti francesi è arrivata per voce di Anne Sabourin, che ha definito la richiesta di esclusione «ridicola nella forma e nella sostanza». Salvo poi attaccare il partito di Mélenchon, colpevole secondo Sabourin di «cercare un pretesto per tagliare i ponti. Dietro la richiesta di chiarezza, c’è del fumo per nascondere altri obiettivi». Alti obiettivi, denunciano i comunisti francesi, senza dire quali e lasciando alla fantasia di chi lo vuol cogliere l’obiettivo plausibile di una leadership europea.
L’indomabile Jean-Luc
La stampa mainstream (e filo-gollista) lo chiama Maximilien Ilic Melenchon, un gioco di parole che combina Robespierre e Lenin. Jean-Luc Mélenchon è un tipo «provocatorio e irriverente, politicamente scorretto, che afferma verità come pugni», per usare le parole con cui lo descrive Pablo Iglesias.
Di rotture Mélenchon se ne intende eccome: nel 2007 rompe da sinistra con il Partito socialista francese e fonda il Parti de gauche. Nel 2017 alla vigilia della sua candidatura alle presidenziali non esita a raffreddare le relazioni con il Front de gauche e quindi con la costellazione di partiti della sinistra francese, tra cui i comunisti di Francia, il Pcf. Da allora guida il movimento nato per sostenere la sua candidatura all’Eliseo, La France Insoumise. La Francia Indomabile, come lui. Rompe con tutti eppure i risultati gli danno ragione: al primo turno delle presidenziali francesi Mélenchon arriva quarto con il 19,6% (più di 7 milioni di voti), non abbastanza per accedere al secondo turno però. Il suo “rivale d’area”, Benoît Hamon, candidato di minoranza dei socialisti arriva al 6,4%, non abbastanza per nulla, ma abbastanza per impedire a Mélenchon di raccogliere quel tanto così per raggiungere Marine Le Pen (al 21,3) e andare al ballottaggio con Emmanuel Macron. O almeno questo è ciò che lui non gli perdona.
Varou non parla troppo bene francese…
«Tapparsi il naso» e votare Macron, aveva detto Yanis Varoufakis a maggio 2017 mentre spiegava il suo endorsement per Emmanuel Macron al ballottaggio per le presidenziali francesi con Marine Le Pen. Ammettendo di non capacitarsi sulle posizioni di Mélenchon che – considerando quello di Macron un «liberalismo autoritario» – non si è mai sognato nemmeno per un istante un tale endorsement. In quella foto e in quell’endorsement non c’è certo la ragione madre di ogni duello, ma la prima crepa pubblica di una bella frattura sì.
A guardare bene, le differenze tra i due non sono poche. Il New Deal per l’Europa di Yanis Varoufakis, che da anni gira il Continente nel tentativo di costruire un partito paneuropeo, è un piano per salvare l’Eurozona e riformare l’economia europea. Il programma economico di Mélenchon, invece, è nazionale (lo ha infatti usato per le presidenziali dello scorso aprile): non tiene conto dei vincoli esterni e neppure dell’Unione europea.
Un «programma chavista», come lo hanno definito Confindustria francese e la destra, che non esclude l’uscita dalla “tirannia economica” dell’Unione europea. Senza affondare, grazie a quel che chiama «rilancio keynesiano» in un solo paese, con uno choc di 273 miliardi nell’economia: 173 miliardi di spesa pubblica supplementare e 100 miliardi di investimenti, che creerebbero «un circolo virtuoso» di maggiore occupazione e quindi maggiori entrate fiscali, e a un calo del peso del debito pubblico dopo un aumento temporaneo del deficit. Stando ai calcoli di Mélenchon, la Francia potrebbe puntare così a una crescita del 2% circa. Dove troverà i soldi? Combatterà l’evasione fiscale, aumenterà le tasse, tasserà le frontiere secondo le regole di un «protezionismo solidale».
C’era una volta un Plan B
Da Varoufakis a Jean-Luc Mélenchon, da Stefano Fassina a Oskar Lafontaine, fino a pochi anni fa si era tutti d’accordo sotto lo stesso manifesto: quello di un Piano B per l’Europa. Ma oggi la frattura dentro il Plan B e, a questo punto, il suo “fallimento” non si possono più nascondere.
Da Berlino a Parigi e da Madrid a Roma, fino all’ultima edizione di Lisbona 2017, il manifesto si è pian piano trasformato in una spenta conferenza annuale dalla quale non è uscito nemmeno un appuntamento comune o una campagna di qualche tipo in Europa. Le divergenze di opinioni e strategie, ancora una volta, non sono state un buon motivo per confrontarsi ma l’occasione di battere strade diverse. E che i due “volti” del Piano B non si stiano troppo simpatici non è certo un mistero. Intanto Syriza al governo “festeggia” la sua uscita dalla crisi tra le contestazioni e Podemos è alle prese con le amministrative in Spagna, mentre si tentano nuovi Forum per evitare dispersioni (torneremo in un’altra occasione a “spiare” cosa succede nelle altre sinistre europee), l’Italia non ha ancora dato il suo contributo alla causa europea. Di certo, causa elezioni nazionali, sederà al tavolo con notevole ritardo. Speriamo trovi ancora qualche commensale.
http://www.sinistraineuropa.it/approfondimenti/melenchon-varoufakis-divergenze-strategiche-su-europa/