Un anno fa al World Economic Forum il presidente cinese Xi Jinping ha conquistato gli applausi dell’élite di Davos per il suo impegno all’apertura al commercio. Naturalmente l’economia della Cina è fortemente dipendente dalle esportazioni, dunque il cosiddetto “libero scambio” è nel suo interesse e dunque la posizione del presidente Xi non è stata una sorpresa.
Quelle che hanno attirato meno attenzione sono le dichiarazioni del presidente Xi riguardo all’ambiente, qualcosa che le élite del capitalismo trovano piuttosto meno comode. Lo scorso ottobre, al Diciannovesimo Congresso del Partito Comunista Cinese, ad esempio, egli ha fatto questa affermazione: “L’uomo è la natura costituiscono una comunità di vita; noi, da esseri umani, dobbiamo rispettare la natura, seguire le sue vie, e proteggerla. Solo osservando le leggi della natura l’umanità può evitare costosi disastri nel suo sfruttamento. Ogni danno che infliggiamo alla natura alla fine tornerà a perseguitarci. Questa è una realtà che dobbiamo guardare in faccia”. Ha fissato l’obiettivo di “riportare la serenità, l’armonia e la bellezza della natura” e ha elevato l’agenzia della protezione dell’ambiente al livello di un ministero.
Considerato il grande contributo della Cina al riscaldamento globale e il pesante inquinamento di cui soffre, tali affermazioni sono benvenute. Ma questo davvero significa che la Cina diverrà ora un paese che pone al primo posto l’ambiente e, forse, salva il capitalismo dai suoi eccessi? E’ molto improbabile, considerata l’integrazione di Pechino nel sistema capitalista mondiale e le dinamiche del capitalismo in cui tutti gli incentivi sono per una maggiore crescita: un sistema che necessita della crescita.
Oltre alle leggi fondamentali del capitalismo, un interessante documento di Richard Smith, uno storico dell’economia che frequentemente scrive sull’impossibilità del “capitalismo verde”, sostiene che la natura del sistema cinese è un’ulteriore barriera a qualsiasi svolta a un primato dell’ambiente. Nel suo documento, “China’s drivers and planetary ecological collapse” [I motori della Cina e il collasso ecologico planetario] il dottor Smith sostiene che nonostante il potere che il presidente Xi ha apparentemente accumulato nelle sue mani, cambiare gli incentivi economici del paese e ben oltre le sue possibilità. Il dottor Smith scrive: “Xi Jinping non può guidare la lotta al riscaldamento globale perché gestisce un sistema politico-economico caratterizzato da motivi sistemici di crescita – la necessità di massimizzare la crescita oltre qualsiasi razionalità di mercato, la necessità di massimizzare l’occupazione e la necessità di massimizzare il consumismo – che sono, semmai, ancor più potenti e ancor più eco-suicidi di quelli del capitalismo ‘normale’ dell’occidente, ma che Xi è impotente a modificare. Questi motori sono responsabili dell’irrazionale ‘crescita cieca’, ‘produzione cieca’ e inquinamento fuori controllo della Cina, ciò che lo stesso Xi descrive come ‘uno sviluppo insensato a spese dell’ambiente’ [pagine 4-5]”.
Tre fattori muovono la crescita cinese, scrive il dottor Smith: industrializzazione sostitutiva delle importazioni (la necessità di competere con successo come economia nazionale con gli USA e altri principali paesi capitalisti); generazione di occupazione (il principale motivo per il quale le autorità cinesi non consentono alle imprese di fallire); e consumismo. Nel suo documento egli sostiene che, nonostante tutte le riforme di mercato introdotte in decenni recenti, le imprese cinesi di proprietà statale non operano secondo le regole del mercato. Egli scrive:
“Nonostante tutte le riforme del mercato dal 1978, il governo non ha consentito neppure a una sola impresa di proprietà statale [SOE] di fallire e finire in bancarotta, indipendentemente da quanto inefficiente, indipendentemente da quanto indebitata, poiché tali industrie servono a uno scopo diverso. Non esistono solo per far soldi. Esiste per soddisfare i desideri dei dirigenti del Partito Comunista Cinese, specialmente in quanto contribuiscono alla sostituzione delle importazioni e all’industrializzazione nazionale” [pag.6].
Decine di milioni licenziati da imprese statali
Assicurare la stabilità sociale è indiscutibilmente un obiettivo dei capi cinesi, ma il dottor Smith pare sottovalutare la misura del normale comportamento capitalista delle imprese cinesi di proprietà statale [SOE]. Un documento del 2006 pubblicato dal Bollettino del Lavoro Cinese, “Swimming against the Tide” [Nuotare controcorrente] segnala non solo il continuo consolidamento delle SOE, ma la conseguente perdita in massa di posti di lavoro derivante da tali ristrutturazioni. Il rapporto afferma:
“Alla fine degli anni ’90, tuttavia, il governo ha massicciamente intensificato la ristrutturazione delle SOE. Questo processo ha disemancipato ed emarginato decine di milioni di lavoratori, creando al tempo stesso una nuova classe di potenti capitalisti con collegamenti stretti e molto influenti con l’amministrazione locale. Crucialmente, a quel punto, il governo centrale è sembrato abbandonare qualsiasi idea di misure correttive aggiuntive e ha dato fondamentalmente mano libera a dirigenti governativi locali e amministratori delle SOE di spartirsi tra loro il patrimonio dello stato.
Dal 1995 al 2002 le SOE hanno licenziato in totale sino a 30 milioni di lavoratori… Contemporaneamente i dirigenti delle SOE hanno usato il loro potere e i loro collegamenti con le amministrazioni locali per operare dietro le quinte al fine di assicurarsi beni imprenditoriali a prezzi ridicolmente bassi, elevandosi dall’essere semplici dirigenti a diventare i veri proprietari dell’impresa. Secondo un’indagine più del 20 per cento delle imprese private create nella prima metà del 2006 è emerso dalla ristrutturazione di imprese statali e collettive”.
Minqi Li, nel suo libro, The Rise of China and the Demise of the Capitalist World Economy, [L’ascesa della Cina e la caduta dell’economia capitalista mondiale], nell’esaminare lo sviluppo dell’economia cinese non si è tirato indietro nel descrivere l’assenza di interesse per i lavoratori:
“Per tutti gli anni ’90 la maggior parte delle imprese statali e di proprietà collettiva è stata privatizzata. Sono state licenziate decine di milioni di lavoratori. La classe lavoratrice urbana è stata privata dei suoi residui diritti socialisti. Inoltre lo smantellamento dell’economia rurale collettiva e di servizi pubblici di base aveva costretto centinaia di milioni di contadini a trasferirsi nelle città dove erano divenuti ‘lavoratori migranti’, cioè un’enorme manodopera a basso costo che avrebbe lavorato per imprese transnazionali e capitalisti cinesi per il salario più basso possibile nelle condizioni più dure. Il massiccio afflusso di capitali stranieri contribuì a un enorme boom delle esportazioni” [pagg. 64-65].
A luglio 2017 le SOE costituivano solo il 16 per cento dell’occupazione cinese e meno di un terzo della produzione industriale, secondo un rapporto della HSBC.
Dinamiche capitaliste sono solidamente in atto nell’economia cinese, uno sviluppo che non farà che intensificarsi considerato il passaggio del ruolo del mercato da “limitato” a “decisivo” da parte della dirigenza del Partito Comunista in un plenum chiave del Comitato Centrale nel 2013 e la continuità su questo corso stabilita dal partito nel congresso del partito dell’ottobre 2017, di nuovo sottolineando il “ruolo decisivo” del mercato.
Sprechi e obsolescenza programmata si sommano al consumismo
Ciò nonostante il dottor Smith è nel giusto quando segnala che c’è una maggior guida statale dell’economia rispetto alle comuni economie capitaliste. La Cina è di gran lunga il maggior consumatore di materie prime industriali, una funzione del frenetico ritmo d’investimenti del paese. Gli sprechi si estendono anche ai beni di consumo, scrive. L’obsolescenza programmata è fuori controllo. A causa degli incentivi a produrre ogni necessità razionale sono costruite infrastrutture non necessarie, al punto di “città fantasma”; gli edifici sono demoliti dopo un paio di decenni; e grandi elettrodomestici, come frigoriferi, sono progettati per guastarsi nel giro di solo pochi anni per spronare altro consumo.
Egli sostiene che l’introduzione di riforme di mercato ha amplificato, invece di ridurle, tendenze della vecchia economia burocratica a investimenti ridondanti. Dirigenti provinciali e locali cercano di costruire le proprie basi industriali, il che scoraggia la cooperazione e l’efficienza. Anche se il Partito Comunista può rimuovere milioni di persone per aprire la strada a progetti di costruzione, non può imporre dettati sull’ambiente o sull’eccesso di sviluppo. Ci sono troppi interessi, secondo il dottor Smith:
“Dirigenti ministeriali, governatori provinciali, dirigenti locali e capi di SOE prevalentemente non hanno necessità di preoccuparsi. Perché? Com’è che uno stato neo-totalitario di polizia fortemente centralizzato non è in grado di costringere i suoi dirigenti subordinati a obbedire ai suoi ordini, leggi, norme e regolamenti? Questa è una domanda estremamente interessante. La risposta, suggerisco, va trovata nella natura collettiva della classe dominante cinese. Pechino non è in grado di far valere sistematicamente i suoi ordini contro la resistenza dal basso perché non può licenziare sistematicamente subordinati per insubordinazione: non sono impiegati, come nel capitalismo. Sono membri del Partito Comunista, membri della stessa classe dominante dei leader di Pechino.
Se sei capo di un ministero o di una SOE, specialmente una grande SOE “campione nazionale” che Pechino vuol forgiare in un competitore industriale fuoriclasse, allora Pechino è disposta a ignorare il tuo inquinamento … I ministeri del carbone e del petrolio cinesi e le loro gigantesche SOE sono molto potenti e redditizi, con milioni di burocrati e dipendenti del partito. I capi di grandi SOE hanno rango ministeriale. Delle 120 SOE gestite direttamente dal governo centrale, cinquantaquattro capi di tali società godono di rango ministeriale. A loro piacciono le cose come stanno e intendono mantenerle tali” [pag. 16].
L’amministrazione decentrata della Cina lascia ciascuna provincia a lottare per ottenere il grado di autosufficienza più elevato possibile. Ciò include l’energia, il che significa che l’energia è prodotta per il consumo locale e non necessariamente in un modo economicamente razionale:
“Nel 2015 la Cina ha speso la cifra record di 102 miliardi di dollari in energie rinnovabili eoliche, solari, geotermiche e altre a ridotta o nulla produzione di carbonio. Tuttavia nel 2016 le turbine eoliche hanno prodotto solo il 4 per cento della generazione di elettricità della Cina e l’energia solare è arrivata a malapena all’un per cento. In confronto gli Stati Uniti hanno investito solo 44 miliardi di dollari nel 2015, ma nel 2016 l’eolico ha prodotto il 6,9 per cento della loro generazione di elettricità, quasi il doppio della produzione cinese con meno di metà dell’investimento. Il motivo per il quale la Cina produce così poca energia rinnovabile nonostante tutti gli investimenti è che gran parte della sua energia rinnovabile è ‘ridotta’ (sprecata). A livello nazionale il governo ammette che il 21 per cento dell’energia eolica è ridotta, fino al 40 per cento in alcune province e persino più del 60 per cento in Xinjiang (ironicamente, la provincia con la maggior energia eolica installata)” [pag. 22].
Alloggi sufficienti per metà della popolazione mondiale
Che gli investimenti proseguiranno a ritmo rompicollo è esemplificato dalle notizie che quando tutti i piani di nuove abitazioni sono sommati, ci saranno in Cina alloggi sufficienti per 3,4 miliardi di persone entro il 2030, numero che un articolo che lo riferisce sul Shanghaist ironicamente segnala “pare un tantino eccessivo”. L’origine di questo eccesso di sviluppo, scrive Shanghaist, sta in “più di 3.500 nuove aree urbane a livello di regione pianificate da governi locali”. Solo un progetto, la Nuova Area di Xiongan, vicino a Pechino, ha scatenato una frenesia immobiliare così intensa che è stato detto aver creato ingorghi sulle strade che conducono all’area ed è stata riferito che i prezzi dei terreni sono raddoppiati nel giro di ore dopo l’annuncio dei suoi piani da parte dell’amministrazione. E naturalmente gli investimenti cinesi non sono limitati all’interno dei confini del paese. People’s Daily Online stima che a tutto il 2016 circa 30.000 aziende cinesi abbiano investito 1,2 trilioni di dollari nell’iniziativa infrastrutturale “One Belt, One Road”.
Il profitto privato, e tutti i problemi che ne derivano, è divenuto la forza motrice dell’economia cinese. Timothy Kerswell e Jake Lin, nel loro recente articolo su Socialism and Democracy, “Capitalism Denied with Chinese Characteristics” [Capitalismo negato con caratteristiche cinesi] hanno segnalato che le SOE operano come aziende private e sono controllate da “un pugno di ricchi uomini d’affari e dirigenti che sono prevalentemente i principini [del partito] e le loro famiglie”. Agli inizi del ventunesimo secolo, hanno scritto:
“La Cina urbana era passata da un sistema di ‘pentola di riso di ferro’ altamente protetta che garantiva posti di lavoro permanenti ai dipendenti statali, provvidenze dalla culla alla tomba – e un livello relativamente elevato di uguaglianza – a un sistema occupazionale contrattuale determinato dal mercato al suo centro, e grandi settori informali e non protetti alla periferia” [pag. 45].
La speculazione sui terreni da parte di governi locali sta rapidamente pavimentando terre agricole, un altro fattore che contribuisce al riscaldamento globale. Le terre vendute a interessi commerciali possono avere un prezzo quaranta volte più alto di quanto è pagato ai contadini, scrivono il dottor Kerswell e il dottor Lin:
“Sotto molti aspetti l’urbanizzazione in Cina può essere interpretata come il processo di amministrazioni locali che spingono i contadini in edifici impossessandosi contemporaneamente della loro terra. La proprietà pseudo collettiva della terra agricola è anch’essa divenuta sempre più un fronte di rampante corruzione e clientelismo dei quadri rurali nel perseguimento di interessi personali nel processo di trasferimento dei diritti d’uso. Dal 2005 indagini hanno indicato un costante aumento del numero degli espropri di terre e annualmente circa quattro milioni di lavoratori hanno perso la loro terra” [pag. 39].
Incentivi per maggiori investimenti, maggior riscaldamento globale
Questo non è un sistema che darà priorità all’ambiente. E poiché tanta dell’economia cinese basata su fabbriche sfruttatrici è costruita sull’assemblaggio di parti prodotte altrove in prodotti finiti – prima le parti sono spedite da varie parti del mondo e poi anche il prodotto finito è spedito altrove – il trasporto relativo a queste catene globali di produzione contribuisce enormemente all’inquinamento e al riscaldamento globale. Dunque per quanto potremmo cavillare con la caratterizzazione delle SOE da parte del dottor Smith egli è molto nel giusto sul fatto che gli incentivi sono che il contributo della Cina al riscaldamento globale continuerà a crescere e dunque Pechino non può contribuire a invertire il riscaldamento globale e il futuro collasso dell’ambiente.
Non ci sono sostituti a un minore consumo. Il dottor Smith conclude il suo documento con queste righe:
“Il solo modo per affrontare efficacemente l’emergenza climatica che abbiamo di fronte consiste in una chiusura d’emergenza di produzioni industriali inutili, superflue, non necessarie e dannose in tutto il mondo, ma più particolarmente in Cina e negli Stati Uniti, i maggiori inquinatori … Se i cinesi non organizzeranno un taglio e una chiusura razionalmente gestiti delle industrie insostenibili Madre Natura chiuderà quelle industrie al posto loro e in modo molto meno piacevole. Non c’è via d’uscita da questa verità molto scomoda: bisogna smettere di produrre troppo” [pag. 27].
Non che si debba chiedere a Pechino di farsi carico dell’intera colpa. Le imprese multinazionali occidentali hanno trasferito volentieri la loro produzione in Cina, aumentando di molto il riscaldamento globale. Né andrebbe minimizzato il ruolo del capitale occidentale nel facilitare progetti cinesi. La Banca Mondiale ha fornito finanziamenti per il progetto della Diga delle Tre Gole che ha sfollato 1,3 milioni di persone e per costruire la diga sono stati necessari anche capitali canadesi, francesi, tedeschi, svizzeri, svedesi e brasiliani.
E’ difficile evitare l’argomento che ai popoli occidentali è stato consentito di godere di stili di vita fortemente consumatori e sarebbe scorretto imporre tenori di vita inferiori a quelli dell’Est o del Sud globale. E’ un argomento ragionevole. Ma abbiamo solo una Terra è l’umanità sta consumando risorse ben oltre la sostenibilità, al ritmo di 1,6 Terre. Se il mondo intero consumasse al ritmo degli Stati Uniti avremmo bisogno di quattro Terre. (Il Kuwait è al vertice di questa categoria, con un tasso di 5,1 Terre, seguito dall’Australia a 4,8).
Tali consumi sono del tutto impossibili nel lungo termine. Quelli che vivono nei paesi capitalisti avanzati dovranno consumare molto meno. Tuttavia ciò è impossibile in un sistema economico globale che richiede crescita e non offrirà lavoro a quelli che dipendono dalle industrie inquinanti. Industrializzare il sistema solare, se mai ciò si dimostrasse possibile, non farebbe che rimandare l’inevitabile. Possiamo avere un futuro sostenibile con una produzione accordata ai bisogni umani oppure possiamo continuare a produrre profitti privati fino a quando scopriremo a nostre spese che non si possono mangiare i soldi.
Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/china-cant-save-capitalism-from-environmental-destruction/
Originale: Systemic Disorder
traduzione di Giuseppe Volpe