Il dibattito sull’utilità del voto è oltre lo stucchevole: è imbarazzante. Ma, seppur presi da qualche imbarazzo, almeno noi che proviamo ancora quella necessaria vergogna nel valutare un voto rispetto ad un altro meno o più importante a seconda della grandezza presupposta del partito o movimento scelto, almeno noi che siamo insospettabili proprio in merito alla proclamazione di questo tipo di “utilità” del voto, possiamo dire che in questo dibattito vediamo da tempo un certo lento logoramento della democrazia.
Almeno di quella rappresentativa che, gira e rigira, finisce per includere anche la consunzione di quella sostanziale: perché il tanto celeberrimo “voto utile” è un vera e propria arma di distrazione di massa, di imbonimento elettorale che vorrebbe farci credere che esistono voti più utili rispetto ad altri non sulla base sacrosanta di una appartenenza sociale, di una condizione di vita per cui si sceglie la forza politica che meglio ci rappresenta e che difende i diritti (o i privilegi) che abbiamo e che rischiamo di perdere; no, tutto questo il “voto utile” non lo contempla.
Il voto diventa “utile” nel momento in cui viene sottratto all’intesa politico-sociale ed emotiva tra il cittadino e le sue pulsioni, le sue idee, le sue passioni: non si vota secondo coscienza, dunque, ma solo secondo “utilità”.
E a stabilire l’utilità del voto non è un’autorità garante della morale pubblica (quella esiste già e si chiama classe dominante) ma la circostanza dell’attualità di un potere che vuole perpetuarsi nelle mani di chi lo ha già e, dopo aver fatto a sua immagine e somiglianza l’ultima legge elettorale del caso, tenta di far passare ennesimamente il messaggio secondo cui se sei di sinistra (o presuntamente tale) è utile battere le destre “classiche” votando chi ha maggiore possibilità numerica di contrapporsi alla coalizione storicamente definibile come “berlusconiana”.
Altri tipi di voti sono, quindi “inutili”, sono dispersioni del consenso, sono persino nocivi alla democrazia perché non sono unitari e non servono allo scopo.
Ed allora, il cittadino culturalmente indifeso, che si approvvigiona di elementi di politica solamente e malamente nel periodo ristretto del mese elettorale, osserva i contendenti in campo, guarda i sondaggi nei primi quindici giorni di campagna e inizia a pensare che è veramente utile soltanto il voto che serve non a promuovere un programma ma ad ostacolare un altro programma.
Per questo, da quando con la fine della rappresentanza proporzionale dell’elettorato nel Parlamento, quindi dal 1993 in poi, si è sviluppata la cultura del leaderismo al posto di quella delle idee (o ideologie che dir si voglia), dopo anni di craxismo che avevano creato questa nuova impostazione nel mondo della politica italiana, e il berlusconismo ha trasformato il Paese plasmandolo abilmente sulla figura dell’imprenditore (padrone) come self-made-man moderno, il voto utile è diventato la naturale conseguenza per una chiamata dei cittadini a comportarsi non secondo coscienza ma secondo una nuova necessità del mercato: preferire quelle forze che erano in grado di garantire la “governabilità” del sistema Italia.
Ogni altra opzione messa in campo è stata distrutta con le concezioni maggioritarie: non più la maggioranza, ma il maggioritarismo. Ciò che era minoranza o “minoritario” è diventato stigmatizzabile come sinonimo di assoluta inutilità. Un fastidio, un disagio antigovernativo, un impiccio da tollerare solamente per mantenere una parvenza di democrazia nel sistema fintamente parlamentare mantenuto grazie alla democrazia apparente scritta nella Costituzione repubblicana.
Queste elezioni, si dice, sono concepite nuovamente in senso proporzionale, con quel Rosatellum che è una legge fatta per rimettere al centro le particolarità piuttosto delle maggioranze create prima ancora che si sappia l’esito del voto.
Invece siamo ancora una volta in presenza di un sabotaggio della democrazia utilizzando proprio la democrazia stessa come servizievole dama di accompagnamento al voto di tante cittadini e tanti cittadini che vengono convinti ad esprimersi per chi, pur in presenza di un multipolarismo che avrebbe dovuto superare l’alternanza storica tra centrodestra e centrosinistra, garantisce un bipolarismo inestinguibile: quello che rimane tra forze accomunate dalla condivisione dell’ideologia del mercato (questa sì, viva e vegeta!) e forze che ostacolano questa impostazione, questo modo di intendere la vita di ciascuno di noi.
All’individualismo esasperato del liberismo interpartitico che attraversa le tre destre nazionali (PD e satelliti, centrodestra classico e M5S), i proletari moderni, gli sfruttati che devono tornare ad esprimersi sulla scena anche politica oltre che sociale, devono contrapporre un voto di rottura forte, incisivo, rompendo ogni schema: in prima istanza quello bugiardo ed ipocrita rappresentato dal “voto utile”.
Il voto è utile quando viene dato senza imporsi forzature di alcun tipo, senza scendere a compromissioni con sé stessi.
Per riconoscere il voto utile vero basta una semplice domanda rivolta da noi a noi medesimi: “Sto votando per qualcosa e contro qualcosa o soltanto contro qualcosa?“.
Se la risposta che vi date è la prima, allora il voto è davvero utile perché si è riappropriato della sua ambivalenza necessaria che ne fa uno strumento di riconoscimento dei valori che volete vedere interpretati da una forza politica.
Ma se, invece, la risposta che vi siete dati è la seconda, allora significa che state solo mettendo una croce su un simbolo che non vi rappresenta se non parzialmente e che lo fate come sacrificio piuttosto che come diritto pieno.
Domenica l’unico voto utile per le lavoratrici e i lavoratori, per gli sfruttati tutte e tutti è per chi vi ha detto fin dall’inizio, nel mezzo di un tunnel di oscurantismo mediatico inqualificabile, che vuole essere ora e dopo il 4 marzo una forza sociale di sinistra, di alternativa: fatta di vecchi e nuovi comunisti. Fatta di una composita diversità di opinioni che sono la ricchezza sintetizzata nel programma di Potere al Popolo!.
Non c’è altra soluzione possibile. Almeno per una donna e per un uomo di sinistra, per un comunista, per una comunista.
Il punto di vista del mercato e del “voto utile” sono degli altri: di tutti gli altri a destra e al centro. E anche in quella sorta di sinistra che vuole dirsi tale e che è pronta a stringere accordi nel dopo-voto per il bene del Paese.
Il bene del Paese lo possono fare solo i lavoratori, i precari, gli studenti, i disoccupati, i pensionati: solo coloro che fanno fatica a sbarcare il lunario, solo coloro che sopravvivono ogni giorno.
Del bene del Paese fatto dai ricchi, dagli imprenditori (padroni) e dai loro rappresentanti di destra, centro e centrosinistra ne dovremmo avere consapevolezza: di ciò che hanno promesso e di ciò che hanno realizzato. Soltanto politiche di protezione dei profitti e dell’alta finanza.
Domenica, dunque, rompiamo con profitti, alta finanza, voti utili e democrazia apparente.
Domenica il popolo può dare un voto a sé stesso.

 

http://www.lasinistraquotidiana.it/wordpress/il-4-marzo-rompiamo-la-gabbia-del-voto-utile/

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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