di Penny, maestra in una prima elementare*
Lei è nera come la notte.
I suoi occhi sono profondi.
Il suo corpo è duro come il marmo. Sembra solido.
Ha sei anni.
Sua madre si alza alle quattro del mattino per lavorare.
Lei si veste da sola.
Mi porta ogni giorno un dono. Un campione di profumo già iniziato. Un ciondolo mezzo rotto.
Due foglie. Una caramella.
“Ti ho portato una cosa” mi dice appena mi vede “come se l’amore per lei non fosse scontato”.
La bacio sulle guance tonde. La sua pelle è di seta.
Io le parlo, lo faccio con i pensieri, lei non lo sa.
Questi cinque anni sono la nostra possibilità.
La mia, di essere una buona insegnante; la sua, di conoscere.
Lei deve imparare di più e in fretta.
È femmina e nera.
Sa già che la sua storia non è uguale agli altri.
La vita glielo ricorda ogni attimo.
Ma non sa ancora che la conoscenza sarà l’unica sua possibilità.
Contro l’ignoranza e la supponenza di chi si crede superiore.
È femmina e nera.
E io farò di tutto perché lei impari. Conosca.
Si difenda.
Gli altri non rimarranno indietro, andranno avanti.
Impareranno che il mondo è di tutti.
Che lo straniero è solo la paura che abbiamo di noi stessi e della nostra cattiveria.
Che la cultura salva.
Sono la sua insegnante, e se perdessi anche solo un bambino per strada non me lo perdonerei.
Mai.
Se c’è una libertà che abbiamo ancora, è quella di poter utilizzare le parole. Le parole sono potenti. Hanno la presunzione di cambiare le cose. Distruggere muri e creare ponti. Comune dona una possibilità alle parole, come quella di avvicinarsi alla verità, anche se scomoda. E lo fa nell’unico modo possibile, mettendo insieme e interrogandosi. Noi possiamo esserci. E farlo insieme in un progetto che unisce. Dicendo no a una società che divide. Penny
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