Dopo il voto. Sulle ragioni della sconfitta non basta il lamento, serve una spietata autocritica

Terrei ben distinte le questioni dell’attualità politica rispetto a quelle di prospettiva. Nell’immediato bisognerà dare un governo al paese in base ai risultati elettorali. Se si vuole evitare il ritorno alle urne senza nessuna possibilità di un’inversione di tendenza si dovrà giocare di rimessa, con l’unico obiettivo di cercare di non far precipitare il paese nella spirale del peggior populismo xenofobo e salvaguardare alcune casematte della sinistra.

Si potrebbe provare a condizionare un governo a direzione pentastellata (piaccia o no sono loro ad avere ottenuto il maggior consenso tra le forze politiche organizzate) individuando i temi e le formule di un possibile accordo. In fondo il reddito di cittadinanza e la questione del lavoro, il superamento delle politiche economiche restrittive e la messa in discussione del principio del pareggio di bilancio in costituzione, politiche sociali maggiormente favorevoli ai diritti dei cittadini sono terreni di possibile confronto. Su altri fronti si potrà cercare di limitare i danni cercando di volta in volta una mediazione possibile, sfruttando quel margine di intervento che c’è, vista la non autosufficienza dei 5 Stelle. Non necessariamente ciò deve portare ad un accordo di governo, basterebbe riscoprire il valore dell’attività parlamentare. D’altronde, la fine del bipolarismo dovrebbe portare «naturalmente» a quest’esito. Comprendo che non è facile cambiare passo in parlamento dopo venticinque anni di ubriacatura maggioritaria. Una storia alle nostre spalle che ha teso a considerare «inciucio» ogni possibile «compromesso» politico.

Per evitare esiti degenerati sono necessari alcuni presupposti che garantiscano gli accordi che si vanno assumendo. In passato bastava la forte legittimazione delle forze politiche e dei loro leader (il Pci e Togliatti non avevano difficoltà a parlare con Giannini dell’Uomo qualunque o con le diverse anime delle Dc), oggi la trasparenza si rende necessaria per rassicurare un popolo – giustamente – diffidente. Dunque, non tanto nelle sedi di partito ma è in parlamento che deve svolgersi la discussione politica. In fondo, tra le cause di degenerazione degli accordi tentati nel più recente passato v’è proprio l’assenza di visibilità. Il patto del Nazareno contratto alla sede del Pd o quello della crostata a casa Letta sono stati definiti nell’ombra e tra leader di partito a titolo privato. In una situazione ancor più complessa che non in passato, con equilibri istituzionali più fragili e forze politiche ben poco riconosciute, rendere pubblici gli impegni raggiunti a seguito di un dibattito parlamentare aperto e trasparente credo rappresenti la maggiore garanzia per conseguire più solide mediazioni politiche.

Non mi illudo certo che il metodo indicato, che privilegia il ruolo del parlamento, possa portare ad una rivincita della sinistra. Tutt’altro. La sinistra ha perso le elezioni e dunque, almeno nel breve periodo, potrà svolgere solo un ruolo di resistenza. La trincea parlamentare è certamente sguarnita, ma – dal punto di vista istituzionale – non ne vedo altre.

Preso atto dei ridotti limiti entro cui possono continuare a sopravvivere le politiche di sinistra radicale nel breve periodo, si deve necessariamente anche riflettere sulla prospettiva di più lungo periodo. Interrogarsi attorno alle ragioni della sconfitta storica subita e valutare realisticamente le possibilità di una sua «rifondazione» (termine orribile, abusato e ormai privo di significato, ma non riesco a trovarne un altro). Su questo terreno non basta più il lamento, c’è bisogno di una spietata autocritica. La sinistra non s’è disfatta per colpa degli altri, ma per le proprie debolezze.

Essa sta morendo perché s’è chiusa in sé stessa. Non riesce più a prospettare un cambiamento reale della vita delle persone, le quali si sentono sempre più abbandonate dalle forze politiche di sinistra. E infatti i «dimenticati» guardano altrove, spesso alla destra populista. Per provare a sopravvivere la sinistra deve smetterla di pensare alle proprie piccole cose, che troppo spesso coincidono con la difesa di rendite di posizione personale e la voglia di regolare i conti solo all’interno delle proprie organizzazioni politiche ormai esangui. Per avere un futuro il pensiero critico deve ricominciare ad interpretare il cambiamento. Non in base a promesse roboanti (ne siamo stati sommersi in questi anni), ma mostrando il coraggio della concretezza. Si potrebbe iniziare cominciando a discutere con chi ha vinto le elezioni di temi che possono far maturare una coscienza anche a sinistra, in fondo un modo per mettere alla prova tutti: la forza degli altri, le nostre debolezze. Chissà che non ne esca qualcosa di buono?

 

 

http://www.lasinistraquotidiana.it/wordpress/la-sinistra-muore-perche-si-e-chiusa-in-se-stessa/

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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