Riceviamo e pubblichiamo da Franco Astengo

Ricorre il 135° anniversario dalla morte di Karl Marx, la cui figura è così riassunta da Wikipedia:

“Karl Marx, spesso italianizzato in Carlo Marx (Treviri, 5 maggio 1818 – Londra, 14 marzo 1883), è stato un filosofo, economista, politologo, storico,sociologo, uomo politico  e giornalista tedesco. Il suo pensiero, incentrato sulla critica, in chiave materialista, dell’economia, della politica, della società e dellacultura capitalistiche, ha dato vita alla corrente socio-politica del marxismo. Teorico della concezione materialistica della storia e, assieme a Friedrich Engels, del socialismo scientifico, è considerato tra i filosofi più influenti sul piano politico filosofico ed economiconella storia del Novecento che ha avuto un peso decisivo sulla nascita delle ideologie socialiste e comuniste.”

Nel ricordare questo anniversario non si può non ricordare che Il ‘900 è stato il secolo secolo del comunismo e dei controversi tentativi di inveramento statuale basati su diversi “fraintendimenti marxiani”.

L’esito di questo tentativi ha portato a definirli come “fallimento”.

Rispondiamo allora a questa definizione che non comprende l’articolazione che si è realizzata attraverso gli esiti stessi da situazione a situazione nel complesso del processo di globalizzazione economica e sociale che, per il tramite dell’innovazione tecnologica e della diversità dei movimenti di emancipazione

La somma di queste due affermazioni, del ‘900 come secolo del marxismo e del suo fallimento, ha prodotto, assieme a molte altre conseguenze, la cancellazione di persone, movimenti, concezioni senza le quali la comprensione del nostro passato è impossibile o fortemente ridotta.

La loro eliminazione o stravolgimento (come si sta tentando di fare, in Italia, con il pensiero gramsciano) sono stati parte costitutiva del programma dei vincitori, anche e spesso appartenenti alla loro stessa parte politica.

Il primo obiettivo da perseguire, nell’idea di aprire un filone di ricerca teorica su di una possibile identità comunista, finalizzata a funzionare da retroterra ideale e culturale per un’azione politica diretta e alla ricostituzione di un partito comunista collocato all’altezza delle contraddizioni dell’oggi, deve quindi essere di carattere storico e storiografico.

La tesi di fondo da portare avanti deve essere quella che le idee e le esperienze prese in esame non rivestano, in questa fase, un interesse unicamente storico, ma rappresentino punti di riferimento per il presente e il futuro.

Rispetto alla storia del ‘900, inteso come secolo nel corso del quale il marxismo si è affermato come fenomeno planetario, è necessario, inoltre, individuare figure, movimenti, esperienze non riconducibili soltanto alle forme politiche che sono risultate egemoni in quel secolo, ma ricercare anche nel campo dell’alternatività critica.

Una prima obiezione all’impostazione di questa breve nota la si potrebbe sollevare in merito al carattere eurocentrico del criterio adottato.

In effetti, al di fuori dell’Europa e dell’Occidente, la prospettiva e il concetto di comunismo sono apparsi, fin qui, molto diversi, a partire dalla centralità del colonialismo e della lotta contro di esso.

In tutti i contesti extraeuropei, la critica al capitalismo è stata inestricabilmente connessa all’anticolonialismo e all’antirazzismo, alla centralità del confronto tra civiltà e culture “ altre” rispetto al modello occidentale.

La fase della marginalizzazione dell’Europa ha però coinciso, di fatto, con l’inaridirsi delle fonti dell’immaginazione politica e del pensiero critico, esaltando il fenomeno negativo della concentrazione sul presente assoluto dell’economia e del consumo.

Non a caso l’Europa spaccata a metà per effetto della guerra aveva saputo esprimere un ricco panorama di movimenti e figure riconducibili al “pensiero critico” mentre, al contrario, l’Europa unificata dopo il crollo dell’89 è apparsa fin qui effettivamente in preda allo smarrimento se non alla regressione, al punto che la democrazia sta perdendo di significato ed è messa sotto scacco da istanze post ideologiche che hanno assunto l’esistente come stato di natura prodotto dal movimento incontrollabile della tecnica.

 Se è vero che le critiche al capitalismo, compresi i suoi approdi liberal-democratici, erano un tempo, lungo i decenni del ‘900, molto diffuse ma pochi sapevano sottrarsi alle sirene degli opposti totalitarismi, nei tempi più recenti e a “cose avvenute”, si sono moltiplicati i critici dei totalitarismi, in particolare e quasi esclusivamente a sinistra.

 Critici dei totalitarismi partiti “da sinistra” e approdati, nella generalità dei casi, a un liberalismo che non maschera l’adesione incondizionata al capitalismo.

La tentazione della marginalità e del settarismo manicheo, da parte di questi soggetti “convertiti”, è risultata immediatamente evidente, con il rischio di riprodurre, fuori dal loro tempo, insensate e grottesche scomuniche dal sapore antico.

Dal nostro punto di vista dobbiamo combattere, primo di tutto, la tentazione di abituarsi a vivere, o meglio a galleggiare, in un presente senza spessore, ovvero a rincorrere un futuro inafferrabile.

Si tratta di rendere evidente, non appena si esca dal sonno della ragione indotto artificialmente dai media, come le vecchie ed eterne questioni tornino d’attualità e i conti debbano essere fatti con il tentativo di tradurre in politica e nella realtà sociale, i valori della modernità.

Nella paralisi dell’azione politica, nella mancanza d’immaginazione e di prospettive o, detto in altri termini, nel consolidamento di un atteggiamento “astorico”, si finisce con l’esprimere sia la perdita del valore fondativo del rapporto con il passato sia la rinuncia a pensare al futuro come storia da costruire da parte di tutti e di ognuno.

Una vera e propria “sindrome del declino”, cui fa da controcanto il moto automatico dell’innovazione tecnologica e della circolazione del denaro.

Ci viene così restituita una diversa e più fondata formulazione della riflessione tutt’altro che superficiale sulla “fine della storia” come effetto indotto dalla fine del comunismo.

Si possono facilmente trovare riscontri empirici a tali considerazioni.

Basti pensare a com’è stata affrontata la crisi in atto sul piano economico – finanziario: ogni sforzo e aspettativa è stato indirizzato alla restaurazione degli stessi meccanismi che hanno prodotto la crisi; in alto e in basso la speranza è quella di tornare al più presto alla cosiddetta “normalità”, alla condizione ritenuta “naturale” di funzionamento della vita e dell’economia, sancendo l’intoccabilità di uno “stato di natura” che peraltro sta producendo ogni sorta di oggettivi disastri e risospingendo in una situazione di vera e propria “minorità sociale” milioni e milioni di persone, in tutto il mondo.

Qualsiasi ipotesi di cambiamento e di apertura sul futuro viene respinta, come se questo tragico esistente coincidesse con il migliore dei mondi possibili: l’unico, comunque, che ci sia dato e che non può essere modificato.

L’ideale non dovrà mai più mutare il “reale”.

Nondimeno si vive in preda a paure crescenti, la cui amministrazione e somministrazione assorbe gli sforzi della politica e dei media.

Il fatto che siano in gran parte paure immaginarie conferma e radicalizza la sindrome della paralisi, il venir meno della possibilità di esperienze fondative e innovative.

Da più parti, con evidente soddisfazione, si è sottolineato che il crollo del comunismo realizzato non ha veramente inaugurato, come nelle tesi di Fukuyama, Von Hajek, Huntington, l’epoca della fine della storia: peraltro, dobbiamo prenderne atto, non ha nemmeno aperto nuove prospettive.

Di sicuro non sono stati compiuti passi avanti significativi verso la costruzione di un assetto internazionale capace di rendere antiquata la guerra, semmai il contrario: essa viene perpetuata, come in Iraq, in Afghanistan, Africa, pur risultando manifestamente insensata e priva di efficacia.

Né la consapevolezza dal basso, nella coscienza dei singoli, della comune umanità sembra in grado di progredire.

Su questo sfondo la democrazia e i diritti umani, le armi ideali utilizzate nella lotta contro il comunismo sovietico hanno perso di efficacia, subendo un evidente processo di strumentalizzazione, come emerge dalle politiche portate avanti dagli USA, in particolare dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001.

Il moltiplicarsi degli indicatori di regresso, sia registrando i dati strutturali nella distribuzione della povertà e della ricchezza su scala mondiale e all’interno dei singoli paesi, sia valutando il grado crescente d’insoddisfazione in ogni ambiente sociale, sia considerando la mancanza di prospettive e di certezze per le generazioni più giovani, tutto ciò sta portando a una revisione del giudizio al riguardo delle grandi temperie del ‘900.

Nei pericoli di guerra, nella realtà della ferocia della gestione capitalistica a livello interno e internazionale, nel solidificarsi di veri e propri regimi autoritari, nella sottrazione quotidiana di democrazia e della possibilità d’espressione risiedono le ragioni di una nostra profonda convinzione: senza adeguata rappresentanza politica non potrà esserci efficace opposizione e lo sviluppo delle lotte di base, pure indispensabili, non sortirà esito alcuno se non quello del rischio di una deriva sterilmente corporativa

Disponiamo di un patrimonio teorico inestimabile non toccato dalle esperienze di fraintendimento etico e di inveramento statuale che hanno attraversato il ‘900 e che hanno fatto affermare a qualcuno che, falliti quei tentativi, la storia era finita.

Il lascito e l’attualità del pensiero marxista rappresentano, invece, ancora la base possibile per costruire questo soggetto, utilizzando anche dal punto di vista concreto, fattuale, della sua realizzazione quanto di “criticità comunista” è stato espresso dal punto di vista teorico e di pratica politica, in varie parti del mondo, in situazioni di espansione e di difficoltà.

Il marxismo è, nella storia del pensiero umano, un rivolgimento radicale, una rivoluzione.

E’ il punto di arrivo di una lotta combattuta per secoli e secoli, attraverso la formazione, la critica, il superamento e la dissoluzione di numerosissimi sistemi e metodi del pensiero, tra la concezione materialistica del mondo e le differenti concezioni non materialistiche.

Il marxismo è una rivoluzione nella storia del pensiero prima di tutto perché rende totalmente esplicite le posizioni del materialismo e liquida, quindi, i mezzi termini, ma soprattutto perché dà al materialismo un contenuto e un metodo del tutto nuovi.

Questo avviene perché i creatori del marxismo, avendo seguito lo sviluppo del pensiero filosofico fino ai punti più alti da questo toccati nel periodo critico del trionfo delle rivoluzioni borghesi e del successivo ripiegare verso il passato come sta avvenendo proprio in questo periodo, hanno saputo ricavarne elementi di sostanza, da cui la concezione del mondo esce completamente rinnovata: sta accadendo questo, oggi, proprio nel momento in cui si cerca di affermare, da parte dell’avversario, l’ideologia della “morte delle ideologie”.

Per sopprimerci, com’è avvenuto al momento della caduta del muro di Berlino, dovranno tentare di chiudere il corso della storia: ma questo non è possibile.

Mentre emergono nuovi fondamentalismi borghesi e religiosi, lo sviluppo delle cose reali e delle relazioni tra gli uomini, il modificarsi delle condizioni di utilizzo delle risorse e della tecnologia, il proporsi di temi apparentemente inediti a livello planetario pongono proprio con grandissima forza il tema di una concezione materialistica del mondo per “cambiare la sua forma, a seconda di come progredisce la nostra conoscenza del mondo”.

Proprio per questo motivo, di vera e propria necessità di proseguire nello sviluppo del nostro pensiero originario di trasformazione dei grandi equilibri politici e sociali in relazione con i cambiamenti che si verificano nel mondo reale, che poniamo la necessità imperativa di un soggetto che restituisca forma politica a questo tipo di istanze: una forma capace di affrontare assieme il quotidiano della materialità della lotta anche nella forma contradditorie che questa può e deve assumere e il divenire dell’orizzonte di un grande, radicale, cambiamento.

 

Di AFV

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