Nelle ultime settimane molto si è detto e scritto rispetto alla decisione del politburo del Partito Comunista Cinese di eliminare il vincolo che obbligava ogni presidente del paese a non potersi ricandidare oltre il secondo mandato, e quindi oltre dieci anni complessivi di governo.
Dalla morte di Mao in poi, questa alternanza guidata è stata testimone della volontà del PCC di stabilire metodi interni di successione politica che assicurassero la tenuta del Partito rispetto alla possibilità di lotte interne per il potere al momento della morte di un leader “a vita”.
Questa scelta, ratificata nelle scorse settimane dalle “due riunioni” delle principali assemblee politiche consultive del paese, è finalizzata in ultima istanza a permettere a Xi Jinping, attuale presidente del paese di mantenersi al potere anche dopo il 2023. Xi è recentemente stato nominato “core leader” del PCC, ed ha accumulato nel corso degli scorsi anni tutte le più importanti cariche politiche e militari nel paese.
Le conseguenze di questa svolta sono potenti, e ci permettono di notare come anche rispetto all’ampio dibattito di teoria politica in corso a livello globale su quali regimi e sistemi politici possano essere più funzionali all’epoca moderna di crisi del neoliberismo, la Cina abbia preso una direzione ben precisa.
Di fronte a quelle che sono le grandi sfide del prossimo futuro del paese, con Xi che ha più volte annunciato come nel 2049 (centesimo anniversario della rivoluzione cinese ) la Cina vorrà arrivare in posizione – se non di primato – di importantissimo ruolo a livello globale, paritario agli Usa come minimo, la Cina prende la sua strada. Non solo nessun passaggio verso un sistema basato su elezioni “libere e competitive” come da manuali di scienza politica; ma l’accentramento e l’eliminazione di ogni voce avversa all’opzione incarnata da Xi.
A Pechino l’imperativo è blindare in ogni modo la stabilità di chi esercita la decisionalità politica, ostruendo al strada a lotte fazionali interne, permettendo di impostare politiche di lungo periodo, evitando ogni tipo di possibile debolezza da parte istituzionale, non rischiando di essere vulnerabile a shock interni ed esterni (finanza, lotte sui posti di lavoro, crisi ambientale, rivolte etniche delle minoranze).
In sintesi, sfuggendo ogni rischio perdere il controllo di anche una minima parte delle molteplici questioni che in questo momento attanagliano il sistema politico cinese. Il dibattito odierno sulla democrazia in declino e sull’autoritarismo risorgente, le comparazioni orientaliste e dispregiative che stanno emergendo in tante letture, non tengono inoltre conto della necessità di allargare lo sguardo e di porsi anche da un punto di vista cinese nell’analisi della questione.
L’avvento di una personalità come quella di Trump al governo statunitense, la quantomeno discutibile gestione della questione migratoria in Europa, il caos in ampie zone del Medio Oriente e dell’America Latina sono state tutte questioni utilizzate politicamente e lette dal Partito Comunista come legittimazione di una progressione autoritaria e decisionista, scappando dalle controindicazioni, dalla debolezza e dall’inadeguatezza della democrazia liberale all’occidentale. In un paese dalla mentalità molto pragmatica e funzionale come quello cinese, le ormai decennali convulsioni del mondo occidentale post crisi dei subprime hanno portato ad effetti che si vedono oggi esplodere in tutta la loro potenza.
Tanti alfieri della “fine della storia” negli anni scorsi avevano immaginato – in primis ad esempio Bill Clinton – che l’avvento della democrazia in Cina sarebbe stata una logica e inevitabile conseguenza delle riforme economiche di mercato, seguendo il solco trionfalistico neoliberale di Fukuyama. La realtà è invece che la Cina ha sviluppato nel corso degli anni, imparando e innovando rispetto all’occidente, una sua peculiare forma di istituzioni di mercato, le quali non presuppongono in alcun modo una democrazia all’occidentale che le governi.
Il ruolo dello Stato in questa visione non è dato una volta per tutte, non riflette alcuna traiettoria universalistica. A Pechino sanno benissimo che uno Stato forte è l’elemento più adatto nel guidare le trasformazioni dell’economia. Sanno benissimo che anche nelle democrazie occidentali più ideologicamente (neo)liberali, in realtà lo Stato è fondamentale per difendere e stabilizzare le condizioni che permettono di realizzare i profitti al capitalista collettivo. Non c’è capitalismo senza stato, come diceva ad esempio Giovanni Arrighi.
Quanto succede in Cina di conseguenza può essere pensato come esito del processo per il quale le forti contraddizioni a livello intra-capitalistico, riassunte in queste ore nella politica dei dazi e delle guerre commerciali trumpiane, conducono per chi voglia attraversarle saldamente alla creazione di una guida autoritaria e forte, che tenga sotto controllo ogni minaccia alla stabilità sociale, e che sia legittimato a muovere guerra con le proprie linee compatte dietro di sé. Le tendenze autoritarie in Europa, la Turchia, la Russia ci parlano della stessa questione.
Anche attraverso campagne come quella contro la corruzione nelle istituzioni, orientate a costruire un legame populista tra Xi, core della leadership, e un popolo cinese essenzializzato, omogeneo e vuoto che ne sostenga il mandato, l’obiettivo cinese è blindare da un lato il ruolo del partito stesso nel governare i processi politici, dall’altro assicurare potenza di fuoco alll’ascesa cinese verso la leadership globale.
La “svolta autoritaria” della Cina non è che effetto di un conflitto intra-capitalistico che sembra farsi sempre più serrato, in assenza di una proposta credibile di nuovo ordinamento del mondo tuttora lacerato dagli effetti della crisi del 2007-2008. Così come è l’emblema della crisi profonda del soft power americano, sconfitto nei pantani mediorientali e dall’ingordigia della sua finanza criminale.