Ultima settimana di svolta per il più grande sciopero mai indetto nelle Università del Regno Unito. La base del sindacato University and College Union rifiuta la proposta di accordo prodotta dai sei giorni di negoziati: «Nessun passo indietro, nessuna riforma delle pensioni sarà mai accettata!». E rilancia in avanti con l’imminente proclamazione di un ulteriore sciopero nel periodo degli esami. Il peggior incubo della governance neoliberale delle Università sta prendendo forma
L’ultima delle quattro settimane di sciopero proclamate dalla University and College Union (UCU) contro una riforma delle pensioni volta a far dipendere l’importo delle stesse dalle fluttuazioni del mercato, è stata una settimana di passione, di grande partecipazione e occupazioni, e al contempo un momento che potrebbe imprimere una svolta decisiva negli sviluppi futuri della mobilitazione e nelle sue potenzialità di vittoria. La proposta di accordo prodotta dal primo giro di negoziati (svoltosi in una camera arbitrale, l’ACAS, come se le università fossero delle aziende tout-court, effettivamente in linea con le trasformazioni neoliberali che hanno investito il sistema universitario britannico negli ultimi 15 anni) è stata infatti rigettata in blocco dai delegati delle sezioni locali della UCU e rimandata al mittente anche dall’Higher Education Committee del sindacato, il quale, per voce della sua segretaria Sally Hunt, ha preannunciato la consultazione degli iscritti per la proclamazione di ulteriori giorni di sciopero in concomitanza con gli esami finali, a cui, nel Regno Unito, è subordinato l’ottenimento della laurea. La sola evocazione di uno sciopero nel periodo degli esami di profitto di fine anno, ha gettato nel panico i Vice Chancellors (i nostri rettori): sarebbe un danno di immagine incalcolabile oltre che la prova dell’evidente scricchiolio delle fondamenta su cui il sistema universitario britannico ha, finora, costruito la sua sbandierata prosperità. Come si è arrivati a questo punto? Quali le ragioni dello sciopero e del rifiuto della bozza di accordo? E, soprattutto, quali prospettive oltre la vertenza sulle pensioni può aprire questa mobilitazione che incontra la solidarietà e il sostegno del personale precario e degli studenti?
LA “RIFORMA” DELL’UNIVERSITY SUPERANNUATION SCHEME (USS)
I datori di lavoro delle università britanniche riuniti nel consorzio Universities UK (UUK, ente corrispondente della nostra CRUI) lo scorso anno hanno proposto una riforma del sistema pensionistico che gestisce i contributi dei dipendenti delle università, l’USS, in base ai risultati di uno studio secondo cui lo schema pensionistico sarebbe insostenibile nel lungo termine. La metodologia impiegata nel condurre l’indagine è stata oggetto di forti critiche da parte di economisti e di iscritti al sindacato, in quanto si fonda sullo scenario, tutt’altro che probabile, che l’intero sistema universitario britannico vada in bancarotta da un giorno all’altro: gli utili delle università sono infatti decuplicati nel corso degli ultimi 10 anni. Inoltre, lo schema pensionistico in sé è in attivo con un capitale investito in crescita del 12% annuo negli ultimi 5 anni, con un valore nominale di oltre sessanta miliardi di sterline (secondo fondo pensione britannico per asset). Proiezioni indipendenti mostrano infatti che lo schema è solvibile almeno per i prossimi 40 anni. Infine, dulcis in fundo, lo stesso studio di UUK, fondato come abbiamo visto sull’ipotesi irrealistica di collasso del sistema universitario, afferma che anche in caso di chiusura dello schema pensionistico, quest’ultimo potrebbe risultare solvibile con un surplus di 8,3 miliardi di sterline (!): dipende dalle fluttuazioni dei mercati.Insomma, il potenziale deficit di 7,3 miliardi, impiegato come pretesto per attaccare le pensioni, è un cosiddetto worst case scenario, molto poco probabile (per usare un eufemismo) e che potrebbe verificarsi solo qualora domani Oxford, Cambridge & co. chiudessero i battenti: è più probabile che il PD vinca le prossime elezioni insomma.
Sulla base di queste posizioni, UUK ha imposto una riforma che individualizza il rischio creando per ciascun contribuente un portfolio costituito da azioni e obbligazioni, il cui rendimento (e quindi l’importo della futura pensione) dipende esclusivamente dall’andamento della borsa e della congiuntura economica. Viene quindi meno il potere contrattuale di un fondo pensione collettivo (seppur privato, è bene ricordare) capace di diversificare investimenti e rischi. Inoltre, la contribuzione dei datori di lavoro verrebbe abbassata dal 18% al 12%. Il risultato finale di queste due misure sarebbe quindi un’incertezza sulla diminuzione della pensione, con proiezioni che parlano di un taglio del 50% dell’importo finale, pari circa a 9.000 £ annue.
Gli obiettivi di questa riforma sembrano essere principalmente due. In primo luogo, la riforma garantirebbe un’iniezione cospicua e costante di capitali nel mercato finanziario britannico sempre più in difficoltà dato lo stallo delle trattative sulla Brexit e l’incertezza che ne deriva. In secondo luogo, lo spostamento del rischio dal fondo pensione ai singoli contribuenti garantirebbe alle università una maggiore disponibilità di risorse, essendo svincolate dal dover garantire il rendimento dello schema con, eventualmente, fondi propri. In due parole la riforma delle pensioni proposta dai datori di lavoro è una finanziarizzazione al quadrato che garantisce utili maggiori e mano libere ai Vice Chancellors.
LO SCIOPERO DI 14 GIORNI INDETTO DALLA UCU
A seguito dell’irragionevole posizione di UUK, il sindacato del personale universitario ha indetto una consultazione fra gli iscritti che ha proclamato uno sciopero di 14 giorni articolato su quattro settimane con un numero crescente di giorni di sciopero per ogni settimana (2 giorni la prima, 3 giorni la seconda e così via fino alla totale astensione dal lavoro per quest’ultima settimana). E’ bene ricordare che nel Regno Unito per indire uno sciopero è necessaria la partecipazione alla consultazione sindacale di almeno il 50% degli iscritti. Il ballot della UCU si è concluso con il voto del 58,3% degli iscritti, con il “Sì” allo sciopero all’88,1%. Un enorme successo, dunque, che si è immediatamente tradotto in un’altissima partecipazione ai picchetti, con intere università circondate dal personale in sciopero. «Un risveglio dell’orgoglio di classe» è stato definito da più voci, da parte di una classe docente che negli ultimi anni ha visto, e subito passivamente, una trasformazione radicale delle proprie mansioni e del significato del proprio lavoro. In primis l’innalzamento delle tasse universitarie che ha convertito il diritto all’istruzione in un dovere all’indebitamento con la conseguente trasformazione delle università in erogatori di servizi a pagamento. Gli studenti-clienti sono tenuti a compilare questionari di soddisfazione del prodotto acquistato da cui dipendono i rankings e quindi le future iscrizioni e, ergo, i futuri ricavi. Clienti che, naturalmente, hanno sempre ragione — quindi guai a essere troppo severi coi voti o a voler trattare argomenti troppo complessi che potrebbero metterli di fronte all’ignoto, a una sfida dietro cui potrebbe celarsi un eventuale fallimento: il loro e quello dell’intero sistema formativo. Una dequalifica del sapere che nei docenti si è trasformata in frustrazione. Senza contare poi l’adesione forzata a paradigmi valutativi senza capo ne’ coda, con l’ossessione di voler misurare la produttività dei ricercatori, senza, figuriamoci, riuscire cogliere che il sapere non è merce e, soprattutto, non dovrebbe essere subordinato a dinamiche di competizione. E infine, l’obbligo sempre più stringente di dover necessariamente portare finanziamenti ai dipartimenti attraverso la vincita di grants, pena la non progressione di carriera o, peggio ancora, il non rinnovo del contratto o la possibilità di poter accedere a posizioni permanenti. Meccanismo che si traduce in elevati tassi di stress che hanno purtroppo portato anche a gesti estremi quali il suicidio di un professore al prestigioso Imperial College London. Tutto questo naturalmente inserito in un contesto di estrema precarizzazione e di governance universitaria ormai interamente verticale e autoritaria, in cui la mancanza di democrazia interna, intesa come ambito di processi decisionali fra pari, è la regola.
In queste circostanze, lo sciopero si è rivelato un’occasione di rivalsa, di rivolta contro l’establishment universitario sia per gli studenti che per i docenti. Una possibilità di finalmente mettere nell’angolo i managers delle università, riscoprendo l’appartenenza “di classe” e la capacità di far valere i rapporti di forza se collettivamente organizzati.
Questo entusiasmo è emerso chiaramente sin dai primi giorni di sciopero caratterizzati da una larga partecipazione ai picchetti che in Gran Bretagna hanno una forte valenza simbolica. In un paese in cui le lotte sociali sono state duramente sconfitte dalla Thatcher mettendo le fondamenta per quello che è diventato lo stadio più “avanzato” del capitalismo finanziario europeo (dando origine alla società più diseguale del vecchio continente), i picchetti sono infatti i testimoni dell’eredità degli scioperi dei minatori, indicando una continuità ideale con le lotte di massa del secolo scorso. Per questo motivo, nonostante il freddo e la neve, i picchetti sono sempre stati molto gremiti, incontrando la solidarietà di passanti, automobilisti e, in modo assolutamente non secondario, di precari e studenti. Per le stesse ragioni, pochi sono stati coloro che osavano superare i piccheti. Piuttosto, chi dissentiva dalle ragioni dello sciopero o dalle pratiche messe in atto, in assenza di lezioni da tenere, preferiva rimanere a lavorare da casa.
Nel corso di questi lunghi giorni di sciopero, i vertici delle università naturalmente non sono rimasti a guardare con le mani in mano. Sin da subito hanno provato, senza riuscirvi, a rompere il fronte mettendo gli studenti contro i docenti colpevoli – secondo il management delle università – di mettere a repentaglio il futuro degli studenti che questi ultimi hanno pagato a peso d’oro (9.250 £ all’anno). Successivamente, i tentativi di arginare lo sciopero si sono tramutati in minacce esplicite riguardanti mancati rinnovi di visti per motivi di lavoro (in un paese in cui, in vista della Brexit, le deportazioni, anche di accademici, sono all’ordine del giorno), mancati rinnovi di contratto, decurtazioni di salario ingiustificate, blocco di progressioni di carriera e così via. Tutte pratiche denunciate pubblicamente dal sindacato con un conseguente effetto boomerang che ha visto rinfoltire la schiera dei picchetti.
All’inizio della terza settimana, il prolungato periodo di sciopero ha prodotto una lieve flessione sia della partecipazione che dell’entusiasmo. L’origine di questo calo è parzialmente da ricercarsi nella richiesta della UCU ai suoi iscritti di scioperare per tutti i 14 giorni di sciopero, richiesta economicamente non sostenibile da tutti gli iscritti, soprattutto dal personale a contratto orario (!) o precario. Conscio di questo aspetto, per sostenere la mobilitazione, il sindacato UCU ha messo a disposizione sin da subito una cassa di resistenza di decine di migliaia di sterline destinata allo strike pay, ovvero un rimborso di 50 sterline al giorno per ogni giorno di astensione dal lavoro, nella migliore tradizione delle casse di mutuo soccorso di fine ‘800. Una cassa, è doveroso sottolinearlo, rivolta in primo luogo al personale precario: una messa in pratica concreta del concetto di mutualismo.
IL RIFIUTO E IL RILANCIO
A infiammare l’ultima settimana di sciopero in programma (per ora) ci ha pensato la segretaria generale della UCU Sally Hunt, con una mossa che, a posteriori, possiamo definire strategicamente lungimirante e che, forse, ha messo le basi per una vittoria della mobilitazione. Logorato e affaticato da estenuanti ed inutili trattative di facciata con Universities UK e con il dilemma sempre più stringente di come rilanciare la mobilitazione, il team di negoziatori della UCU nella camera arbitrale, vista l’irremovibilità dei vertici delle università nel fare reali concessioni, ha sottoposto ai delegati una proposta di accordo che sin da subito è parsa irricevibile. La bozza prevedeva un accordo temporaneo di tre anni in cui le contribuzioni dei datori di lavoro e dei lavoratori sarebbero state leggermente aumentate (riconoscendo di fatto il deficit dello schema pensionistico da molti contestato), un peggioramento dell’indicizzazione della pensione, garanzie non meglio precisate riguardo all’importo finale della pensione e un impegno a far valutare la sostenibilità dell’USS da un organismo indipendente. Dulcis in fundo, un invito congiunto di UUK e dello stesso sindacato a riprogrammare le ore di lezione cancellate (circa 600.000).
Inutile dire come questa proposta di accordo pubblicata lunedì sera sul sito della UCU abbia suscitato la rabbia degli iscritti, che hanno visto la loro lunga e dura lotta svenduta al tavolo dei negoziati, portando a casa, di fatto, soltanto un congelamento (a peggiori condizioni) della riforma per i prossimi tre anni. Al termine dei quali Universities UK tenterà di riproporre verosimilmente le stesse misure di individualizzazione del rischio. La bozza di accordo è giunta inoltre in un momento in cui il fronte dei datori di lavoro appariva sempre più diviso, con diversi rettori che dichiaravano (anche solo strumentalmente per arginare le critiche dell’opinione pubblica) di appoggiare lo sciopero (!) e invitavano i loro rappresentanti al tavolo ad andare incontro alle richieste del sindacato. L’invito poi a riprogrammare le lezioni cancellate è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, infiammando la rivolta degli iscritti della UCU contro i propri vertici. La rabbia si è prima sfogata lunedì sera su Twitter con l’hashtag #NoCapitulation, per poi tradursi, il martedì mattina, in un notevole incremento della partecipazioni ai picchetti, mentre gli studenti in solidarietà occupavano rettorati a Cambridge e Edimburgo. In crescita è stata anche la presenza dei precari ai picchetti, molti dei quali, visti gli sviluppi dei negoziati, hanno capito il momento topico della mobilitazione e hanno sostenuto la vertenza. Nel frattempo, tutte le sezioni del sindacato si riunivano localmente in assemblea votando contro l’accordo (anche se in maniera non vincolante), mentre un folto presidio si riuniva davanto la sede della UCU a Londra contestando la segretaria generale uscita a spiegare i contenuti dell’accordo. La riunione successiva dei delegati territoriali e dell’Higher Education Committee della UCU ha sancito all’unanimità il netto rifiuto dell’accordo e, rilanciando in avanti, ha preannunciato la consultazione degli iscritti per la proclamazione di altri 14 giorni di sciopero nel periodo degli esami.
Un rifiuto che coincide con una dimostrazione di determinazione, unità e democrazia interna del sindacato, ora in grado di sostenere con molta più forza una posizione in realtà molto semplice, quanto chiara e netta: “non verrà accettata nessuna riforma delle pensioni”.
E per questo sono pronti a far implodere l’intero sistema. La decisione infatti di non fare passi indietro e di indire un nuovo sciopero nel periodo degli esami finali di profitto (salutata da esplosioni di gioia nelle assemblee territoriali e nelle “Lezioni nei Pub” (equivalenti oltremanica delle nostre Lezioni in Piazza), è al contempo l’arma finale del sindacato e il materializzarsi del peggior incubo per i rettori. La cancellazione degli esami finali si traduce direttamente nell’impossibilità per gli studenti di ottenere la laurea che hanno comprato a suon di sterline, indebitandosi in media per 50.000 £, con punte di 80.000 £ per gli studenti provenienti dalle famiglie meno abbienti. Oltre a un incalcolabile danno di immagine, vi saranno cause milionarie intentate dalle famiglie degli studenti contro le università che si vedrebbero costrette a rimborsare parte delle tasse universitarie (70.000 studenti hanno già richiesto formalmente uno sconto per l’anno in corso). Sarebbe questo sì l’inizio della bancarotta per il sistema universitario del Regno Unito, proprio come simulato (irrealisticamente) negli stress test condotti da UUK per giustificare la riforma. Un cortocircuito surreale, una profezia che si auto-avvera. In poche parole, potenzialmente, il caos.
Vedremo gli sviluppi di questa incredibile mobilitazione che nessuno pensava avrebbe riscosso un tale successo e sarebbe stata così forte e determinata.
Si chiude oggi il primo tempo e il secondo è tutto da scrivere, con la posta in gioco che rischia di essere molto più alta della partita sulle pensioni. In molte università infatti studenti e precari, insieme agli stessi docenti e ai vertici del sindacato, hanno più volte ribadito come la potenza di questa mobilitazione non può e non deve esaurirsi sulle pensioni, in un contesto definitivamente devastato da logiche finanziarie. «E’ l’intero impianto neoliberale dell’università a dover essere messo in discussione», questo il grido che si leva dai picchetti e dalle assemblee. Non è affatto scontato, la strada è lunga e bisognerà vedere se studenti e precari avranno la forza di imporre gli altri temi (indebitamento e precarizzazione in primis) nell’agenda politica del sindacato.
Ma d’altronde questo sciopero, il più grande sciopero nelle università del Regno Unito, viene, forse eccessivamente, paragonato agli scioperi dei minatori del 1972 e del 1974 che portarono alle dimissioni del premier conservatore Edward Heath. E in un certo senso, l’adozione simbolica delle stesse modalità di conflitto, i picchetti, mostra la volontà di affermare che anche oggi, anche nel Regno Unito, è ancora possibile lottare e, perché no, vincere. Anche per quelli che nel passato, con grande dignità, hanno perso.
#NoCapitulation: altri 14 giorni di sciopero nelle università del Regno Unito