Nel Pd e nella sinistra colpisce, dopo il 4 marzo, il mancato approfondimento sulle cause di una disfatta prevedibile e da più parti anticipata come possibile, se pure non nella misura poi verificatasi.

Il dato più significativo per il futuro è la consistente emorragia di voti dal Pd a M5S, che la sinistra fuori del Pd non ha saputo intercettare.

Cosa accade ora?

In primo piano è il ritorno alle urne in tempi brevi.

Quindi la prima domanda è: chi può determinare lo scioglimento anticipato delle camere?

Per i costituzionalisti, il potere spetta al capo dello stato (art. 88 della Costituzione). E sappiamo che a Mattarella non piace affatto l’idea di sciogliere un parlamento appena eletto.

Ma chi può costringere Mattarella a sciogliere, ancorché non voglia?

La risposta è chiara. Chi ha in parlamento, o anche in una sola delle due camere, una maggioranza contraria a qualsiasi governo, cioè con i voti sufficienti a negare la fiducia a chiunque sia stato nominato dal capo dello stato alla carica di presidente del consiglio.

In un simile contesto – che è tecnicamente una impossibilità di funzionamento – il capo dello stato potrebbe temporeggiare, ma non impedire lo scioglimento anticipato. Né si opponga che c’è la via d’uscita di un governo alla Monti, o Letta, o Renzi.

Anche a non voler considerare che Mattarella non ha niente in comune con «King» George, va detto che quelle soluzioni furono possibili per la sostanziale acquiescenza delle forze politiche. Governi tecnici, del presidente o comunque denominati possono sopravvivere solo se tollerati dai soggetti politici in Parlamento.

Oggi il potere di crisi/scioglimento rimane quanto ai numeri parlamentari sostanzialmente – non formalmente – nelle mani di M5S e Lega, che sommano i voti necessari a sbarrare la strada a qualsiasi governo.

Il vero interrogativo non è se M5S e Lega possano formare insieme un governo – cosa forse improbabile – ma se abbiano interesse insieme a impedire la formazione o la permanenza in carica di qualsiasi governo. Cosa forse più probabile.

È infatti questa la via per andare a una verifica del voto del 4 marzo.

Una ipotesi di cui si parla molto, e che già vediamo giocata sullo sfondo nel tentativo di ciascuno di addossare ad altri la colpa di aver reso impossibile il governo del paese. La pubblicità ingannevole che il voto serve a vincere Palazzo Chigi, e non a rappresentare il paese nelle assemblee elettive, ha prodotto ancora una volta i suoi danni. Che adesso molti vorrebbero riparare con una nuova legge elettorale, in cui inserire strumenti per dare un vincitore a chiusura delle urne.

Non manca la ripresa del tema della riforma costituzionale, anche se la proposta Franceschini sembra – al momento – un tentativo di calciare la palla in corner.

Il punto vero è la legge elettorale, perché i meccanismi volti a garantire un vincitore – ad esempio con un premio di maggioranza o un doppio turno con ballottaggio – sarebbero contestualmente utili a una semplificazione forzosa del sistema politico e alla sostanziale emarginazione del Pd, segmento debole del multipolarismo dopo il voto del 4 marzo. Per non parlare della sinistra, candidata a scomparire.

Quindi, è un copione che risponde agli interessi degli attori oggi principali.

Chi e come potrebbe contrastare una resa dei conti a due tra M5S e un centrodestra a dominanza leghista?

Non il Pd, perché la devastazione renziana è andata troppo a fondo per una ricostruzione in tempi brevi, certo non data dal giro di assemblee sollecitato da Martina. Non la sinistra fuori del Pd, che non ha avanzato il 4 marzo una proposta convincente, e non può farlo ora senza ricostruirsi a sua volta. Sono – al momento – ai margini.

Nemmeno, infine, la Corte costituzionale, la cui debole giurisprudenza consente, almeno sotto il profilo formale, la ulteriore manipolazione della legge elettorale nel senso sopra indicato.

In larga misura, quanto accade viene dal non aver tenuto conto del referendum del 4 dicembre 2016, che imponeva una cesura e un radicale ripensamento.

Viene da una legge elettorale assurdamente voluta e imposta da Renzi a colpi di fiducia. Viene dalla incapacità di leggere fino in fondo il voto del 4 marzo.

Forse, sarà necessario richiamare i gufi e tornare in trincea, per difendere la Repubblica democratica dall’arroganza, la protervia, la stupidità politica.

http://www.lasinistraquotidiana.it/wordpress/il-copione-in-mano-a-lega-e-cinquestelle/

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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