Se nei prossimi giorni si troverà una soluzione al puzzle di una maggioranza di governo (sia essa di «scopo» o politicamente inedita), potremmo avere uno o due anni di tempo prima di una sorta di spareggio elettorale tra Lega e Movimento 5 stelle.

Se la resa dei conti dovesse avvenire prima, non si potrebbe che pensare a un presidio democratico da difendere con le unghie e con i denti – oltre che con i voti – di cui per ora è difficile prevedere i contorni e i punti minimi di convergenza.

Nell’immediato, non resta che elaborare il lutto unendo analisi e ripensamenti.

Forse è finito il «renzismo». Forse è tramontata l’idea che a sinistra basti un rassemblement elettorale. Forse, ancora, si è imparato che le ipotesi resistenziali hanno solo il gusto dell’indomita testimonianza di minoranze politiche e intellettuali.

Di certo, il confronto post elettorale è deludente nonostante lo tsunami. E prima del voto non c’è stata una rilettura sociale e politica della società italiana e delle sue turbolenze più profonde.

Eppure i sociologi del Censis e Giuseppe De Rita avevano provato a schizzare un panorama che la politica non ha voluto vedere: paese vecchio anagraficamente, rancoroso, diviso tra due forme di ribellismo a nord e a sud, ripiegato su se stesso, in ritardo nello sviluppo tecnologico, con poche idee di futuro nella sua collocazione in Europa.

Mentre la mitica classe operaia evaporava, l’idea di come tenere insieme la rappresentanza degli «ultimi» con quella delle nuove figure sociali del digitale non decollava.

Bisogna dunque elaborare il lutto e pensare in profondità.

Troppo improvvisata e superficiale a sinistra è la discussione immediatamente politica che sembra incentrarsi o sulla richiesta che il Pd vada a vedere le carte di Luigi Di Maio con il rischio di suicidio finale o su «non siamo stati abbastanza alternativi», «che fine hanno fatto i No al referendum costituzionale renziano?» dal momento che pure in Lombardia la versione sinistrissima anti Gori ha ricevuto un ben misero 2 e qualcosa per cento e che nella vittoria del No – a volerla analizzare – c’era molto voto di Lega, 5 Stelle, rifiuto della politica tout court e non solo giusta difesa democratica della Costituzione.

Approssimativo Nicola Fratoianni che punta l’indice contro la «sovraesposizione di D’Alema e Bersani» (senza la quale però sarebbe stato difficile per Liberi e uguali conseguire il quorum, del 3 per cento).

Poco convincente lo stesso Pierluigi Bersani che, su facebook, con il suo linguaggio metaforico, osserva: «Nemmeno noi, in pochi mesi, abbiamo trovato la soluzione. Ma almeno abbiamo visto per tempo il problema! Se nel mondo progressista si smette di negare il problema, una sinistra plurale potrà riprendere il cammino».

Massimo D’Alema fa sapere di volersi dedicare «allo studio e alla formazione».

Pietro Grasso è silente.

Intanto c’è un quesito in sospeso senza risposta.

Come mai in Italia non c’è una sinistra dalle dimensioni elettorali e dalla forza attrattiva di Podemos, Linke, Syriza mentre quello spazio è occupato dai 5 Stelle?

Il «caso italiano» come anomalia positiva non esiste più da tempo. Ci sono quasi trent’anni alle spalle da rianalizzare dal 1989 in poi: «socialismo reale» in frantumi, «svolta» del Pci, diaspora tra chi intendeva liquidare storia e patrimonio di quella sinistra e chi voleva provare a rinnovarla.

La «carovana» di Achille Occhetto non aveva ancoraggi ideali, se non un generico aprirsi al nuovo con una contemporanea presa di distanza dal socialismo europeo (l’ombra di Craxi). Il fronte del «no» si divideva invece all’interno del Pci tra i promotori di un nuovo partito (Sergio Garavini, Armando Cossutta, Lucio Magri e altri) e chi riteneva possibile rimanere nel «gorgo» (Pietro Ingrao, Aldo Tortorella, Giuseppe Chiarante e per una fase Fausto Bertinotti).

Rifondazione comunista finì per nascere più su una spinta emotiva di resistenza che su un progetto di ripensamento a fondo dell’esperienza comunista.

La rottura col governo Prodi nel 1998 e le successive scissioni (Comunisti unitari, Pdci, Sel) sui temi del governo e della collocazione politica hanno reso via via impraticabile l’ipotesi di un partito di sinistra non testimoniale.

A loro volta i movimenti – quello no gobal innanzitutto – non sono riusciti a occupare con una proiezione politica lo spazio lasciato sgombro (gli indignados e Podemos in Spagna sono l’esempio contrario).

Le «due sinistre» si sono successivamente allontanate ulteriormente.

Se avremo uno o due anni di tempo, la priorità dovrebbe diventare quella di riorganizzare il proprio campo dall’opposizione con idee inedite e plurali sul passato e il presente, con uno straccio di coalizione anch’essa plurale, con scelte sociali e organizzative innovative tornando nel frattempo a parlarsi ascoltandosi dopo scissioni e flop elettorali.

Per ora, è solo un promemoria.

ALDO GARZIA

da il manifesto.it

http://www.lasinistraquotidiana.it/wordpress/riorganizzare-lopposizione-con-una-coalizione-plurale/

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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