A proposito di semplificazioni.
Un interrogativo sorge dalla lettura del testo di Alessandro Barbano “Troppi diritti” (Mondadori 2018) e forse vale la pena sottoporlo all’attenzione generale.
Andando per ordine, quali sono i punti salienti del ragionamento contenuto nel testo di Barbano?
1) I segnali della crisi di una sinistra orfana di un’ideologia autorevole e perciò condannata a ricercare altrove forme di rassicurazione collettiva.
2) Il primo sintomo di questa vera e propria crisi di smarrimento è rappresentato dalla crisi della delega.
3) La delega sta alla base della sovranità politica e della democrazia parlamentare, nella quale i rappresentanti dei cittadini sono eletti senza vincolo di mandato.
4) Alla delega si è sostituita la suggestione della democrazia diretta e dell’autodeterminazione, dove “uno vale uno” ed emerge non tanto chi ha maggior merito e maggiore competenza, ma chi si propone, sa destreggiarsi meglio all’interno del gruppo e raccoglie più “like”. “Like” che servono per raggiungere l’obiettivo del “uno vale tutti”.
5) La massa prevale ideologicamente (forse sarebbe stato meglio usare “folla”) benché priva di un’idea portante che non sia quella del protagonismo.
6) Non più una massa oppressa dallo Stato autoritario (del quale non c’è naturalmente da avere rimpianto), abituata a obbedire a una comunicazione univoca, ma svincolata da ogni potere, che vaga senza direzione in un universo liquido.
7) In questo quadro si è ridotto il pensiero critico a “valutazione” e si è finiti con il soggiacere a poteri che si muovono manovrati da abili manipolatori politici.
8) Questo stato di cose provoca uno sfaldamento generalizzato all’interno del quale movimenti cavalcano le istanze più diverse, modificando e contraddicendo finalità e posizioni di principio che portano a vivere momento per momento, senza memoria né coerenza.
9) Uno sfaldamento ben testimoniato dalla provata esistenza di un “metodo strutturale di delegittimazione delle opinioni politiche”che avviene attraverso i social, fingendo una raccolta di espressioni di commento dietro alle quali si agitano, nella maggior parte dei casi, pochi operatori i cui interventi alla fine sono scambiati come evidenziazioni della volontà della maggioranza. Un inganno gigantesco che, favorito da una emergente debolezza culturale, viene scambiato come reale identificazione di un movimento frainteso come effettivamente proveniente dalla società. Nulla di più falso, di più illusorio, di manipolato.
Ciò descritto, tratto in parte come intuizione derivante dal testo di Barbano (che pure è mosso da presupposti teorici affatto diversi da quelli di questo intervento) l’intento che si cerca di esprimere in quest’occasione è quello di mettere a confronto la condizione sopra riportata(descritta in modo molto realistico e con precisi riscontri rispetto all’attualità) comparandola con le forme delle scelte politiche soggettive e le decisioni assunte collettivamente politica così come queste venivano assunte al tempo delle “ideologie”.
Lo scopo è quello di mettere in luce la diversità tra la costruzione di un effettivo “pensiero critico” con alla base un solido impianto di riferimento teorico e le scelte compiute, invece, com’è stato scritto “contraddicendo finalità e posizioni di principio che portano a vivere momento per momento, senza memoria né coerenza”. Aggiungiamo: scelte politiche compiute semplicisticamente per la ricerca del potere, piccolo o grande (ogni riferimento al Movimento 5 Stelle e al PD, in questo caso, è voluto e non puramente casuale).
Proviamo allora a riflettere sulla possibilità, così come si poteva esprimere,di motivare un’adesione di principio: è questo il primo elemento di convinzione che, sul piano soggettivo, è indispensabile porre in questione.
Quest’adesione, questo “recinto di appartenenza” aveva necessità di materializzarsi prima ancora che nell’attività intellettuale militante all’interno di un partito nella determinazione di alcune “frontiere”, “paletti” per dirla con una terminologia più prosaica.
Oggi come si è visto si sta tentando di tornare indietro: non lo scrivo per nostalgia di quelli che tutti noi consideriamo i “vecchi tempi” cui fare sempre e comunque riferimento ma piuttosto per presa d’atto di una realtà evidente.
Siamo nella fattispecie della nostra realtà più immediata al riproporsi di un nuovo “caso italiano” posto alla rovescia rispetto a quello che avevamo considerato come tale negli anni’60 -70, come fa cenno anche Rossana Rossanda nella sua recente intervista al “Manifesto”.
Va espressa una convinzione: che la lettura neo-liberista che ha egemonizzato il pensiero e l’azione politica a partire dagli anni’80 sembra aver dimenticato il fallimento storico della lettura liberale “classica”.
Il mondo, nel corso del ‘900, ha imboccato strade del tutto impreviste dai teorici della civiltà liberale: associazionismo, conflitti di lavoro, sindacalismo, la vicenda bruciante dei tentativi di inveramento statuale dei fraintendimenti sviluppatisi attorno ai nodi indicati dall’etica marxiana, emancipazione coloniale, l’idea degli uomini non più individui separati ma membri sociali.
E’ caduta definitivamente l’ipotesi centrale delle vecchia cultura liberale: che l’indipendenza dell’individuo dalla società fosse il fulcro della libertà moderna.
Ecco questo punto dovrebbe rappresentare il primo paletto, insuperabile: non è l’individualismo, come oggi si sta tornando di far credere, il punto fondamentale della vita sociale.
In questi ultimi tempi si è ancora accresciuta la consapevolezza che, al contrario, proprio l’indipendenza – separazione si è rivelata la sorgente autentica della moderna illibertà, giacche soltanto nel reciproco isolamento (pensiamo al consumismo individualistico e- appunto come si è cercato di individuare nella prima parte di questo intervento – all’uso dei nuovi mezzi di comunicazione e di conoscenza) di tutti può crescere la tentazione dispotica di alcuni: l’indipendenza di ciascuno è soltanto il rovescio di un’universale dipendenza di tutti.
L’individualismo si è rivelato esso stesso una specifica e storica forma sociale (oggi prevalente sia nella destra, sia nella presunta sinistra): si tende a non far riconoscere più la società come una ramificazione storica dell’individuo e non si rivendica più quella partecipazione consapevole:(pensiamo al passaggio nella struttura dei partiti dall’integrazione di massa, al “pigliatutti”, fino al partito “elettorale – personale” di stampo populistico che oggi appare del tutto vincente, sia pure nel microcosmo della vicenda politica italiana.
Il superamento di questo vero e proprio “blocco” nell’agire politico e sociale fortemente ri-determinatosi nel corso degli ultimi anni può ritornare a essere d’attualità soltanto affrontando nuovamente quello che rimane un doppio sbarramento sul piano teorico: il resistere, sul piano politico, dell’idea che la democrazia “liberal” rappresenti il modo esclusivo di reggere la società moderna e sul piano economico l’idea che l’economia di mercato sia la sola efficiente forma di ordinare le forme di produzione.
La brusca chiusura della storia del ‘900 non può esimerci, nell’analizzare i due aspetti fondamentali appena citati, dal parafrasare Claudio Napoleoni: “Cercate ancora!”.
Si possono così determinare alcune altre opzioni di fondo che possono rappresentare altrettanti fermi “paletti”.
Rimangono intatte le contraddizioni relative alla necessità inderogabile che le “garanzie” dell’individuo siano affidate in eterno alla gestione rappresentativa dello Stato e al sistema della “libera impresa”.
Il passaggio allo “Stato sociale” può essere quindi ancora considerato quale fase di transizione necessaria in un’idea di inestinguibile sviluppo storico destinato al superamento di equilibri apparentemente consolidati?
Oggi quel giudizio può essere riveduto, preso atto anche della crisi evidente di quella che è stata la socialdemocrazia classica europea e lo stesso “compromesso italiano”?
Apparentemente sì, visto che il moto della storia pare aver girato all’indietro la propria ruota (ribadisco qui quella che è ormai maturata come una convinzione profonda).
Allora, dal nostro punto di vista, si tratta di lavorare per invertire la tendenza.
Perché lo Stato sociale (il “welfare state” dei socialdemocratici e laburisti, il “compromesso” italiano, già citati) poteva ben essere considerato come “soggetto di transizione”è stata convinzione comune fino a farne coincidere il periodo di maggior fulgore con l’indicazione dei “30 gloriosi”.
Adesso però ritengo utile spiegare perché l’approccio comunistico maturato attraverso una lettura del pensiero politico, può ancora risolversi all’interno di un’idea riguardante la profondità del rivolgimento sociale.
Il dato più convincente per operare questa svolta deve essere desunto, sul piano teorico, dalla riscoperta di Gramsci.
Soprattutto del Gramsci dell’intellettuale collettivo, interlocutore di movimenti e istituzioni dal basso, promotore di una riforma culturale e morale.
Quella riforma intellettuale e morale (la vera rivoluzione, senza la quale rimane la prospettiva di un ribellismo senza confini politici definiti e destinato alla sconfitta) che il grande pensatore sardo aveva indicato: riforma culturale e morale che avrebbe dovuto colmare, nel suo disegno, la realtà di un paese che non aveva avuto la riforma religiosa e che aveva costruito il suo “Risorgimento” soltanto attraverso l’opera di un’élite intrisa di romanticismo.
Esiste in questo un elemento di specificità che è ancora possibile definire come “nazionale” a onta di tutte le indicazioni riguardanti i diversi livelli di globalizzazione in atto e di superamento in via progressiva del concetto di “Stato – Nazione”.
Gramsci fu così compreso quasi come il teorico di una via di mezzo tra ortodossia leninista e socialdemocrazia classica, intesa come sintesi superante dei limiti comuni al leninismo e alla socialdemocrazia: l’economicismo e lo stalinismo.
Un “genoma” quello gramsciano, come lo ha definito Lucio Magri nel suo “Sarto di Ulm”, che poteva svilupparsi, o semplicemente agire sopravvivendo, imporsi pienamente o deperire.
A mio giudizio, riprendendo le valutazioni contenute nel già citato “Sarto di Ulm” il motore che muoveva e caratterizzava i “Quaderni” era effettivamente quello della critica e autocritica sul fallimento della rivoluzione nei paesi occidentali.
E’ questo il punto del ragionamento da riprendere: quello del fallimento della rivoluzione nei paesi occidentali e il suo inveramento statuale nel Paese arretrato, dove era riuscita grazie al fraintendimento leninista del “nucleo d’acciaio” e il successivo sviluppo del “socialismo in un Paese solo”.
Non possiamo considerare questo elemento totalmente desueto, da abbandonare rifugiandoci nei punti dello smarrimento politico e sociale descritto dal testo di Barbano.
Gramsci fu il solo, tra i marxisti della sua epoca, che non si limitò a spiegare quel fallimento con la teoria del “tradimento” dei socialdemocratici, o con la debolezza e gli errori dei comunisti; e allo stesso tempo non ne trasse affatto la conclusione che la Rivoluzione russa era immatura e il suo consolidamento in Stato un errore.
Cercò invece le cause più profonde per le quali il modello della Rivoluzione Russa non poteva essere riprodotto nelle società avanzate (ricordate: “La Rivoluzione contro il Capitale”?).
La rivoluzione era dunque, per Gramsci, un lungo processo mondiale, per tappe, in cui la conquista del potere statale, pur necessaria, interviene a un certo punto secondo le condizioni storiche, e in Occidente presuppone comunque un lungo lavoro di conquista di “casematte”, la costruzione di un blocco storico tra classi diverse, ciascuna portatrice non solo di interessi diversi ma con proprie radici culturali e politiche.
Nel contempo, una tendenza già inscritta nello sviluppo capitalistico e nella democrazia ma altrettanto il prodotto di una volontà organizzata e consapevole che v’interviene, di una nuova egemonia politica e culturale, di un nuovo tipo umano già in formazione.
Dall’intreccio tra l’approdo al Marx dell’irruzione popolare della storia e il Gramsci delle “casematte” e nella convinzione mai smentita di una specificità rispetto al comunismo sovietico e a quello cinese si realizzò l’originalità della presenza comunista in Italia.
Eravamo ancora i comunisti più forti in Occidente, mentre il PCF declinava e il PCE era ancora clandestino, non a caso e non a caso la “nostra” classe operaia, da Nord a Sud, dall’Ansaldo a Grottaminarda era la più avanzata sia sulla strada del realizzare i diritti sociali e politici fondamentali, sia dal punto di vista dell’organizzazione di classe in fabbrica. Anche su questo punto val la pena di citare ancora l’intervista di Rossanda al “Manifesto” pubblicata il 5 aprile.
Una riflessione su ciò che è stata l’area comunista italiana in questi termini teorici e sul perché questa possibilità di ragionamento sospeso tra passato, presente, futuro, sia stata abbandonata da tutte le parti nel momento dello scioglimento del PCI può ancora rappresentare il possibile punto di partenza, l’ancoraggio, proprio nel momento in cui emerge (in tempi nei quali pare che la sola strada sia quella della “democrazia del web” come sinonimo della “democrazia diretta” o di quella “del pubblico” con relative conseguenti forme politiche).
Punto di partenza e ancoraggio necessari , quelli dei riferimenti teorici presenti nell’identità comunista italiana, per avviare un confronto con lo “smarrimento sociale” provocato oggi dalla fine delle ideologie (o ancor meglio dall’affermarsi di un “pensiero unico” che tende a occultare la diversità e il confronto in nome dell’affermarsi dell’eterno presente).
Lavorare a una comparazione tra questi due estremi fin qui descritti, al fine di recuperare almeno una memoria attraverso la cui espressione si possa riprendere il filo di un ragionamento di fondo.
Almeno questa è la proposta che si vorrebbe cercare di portare avanti attraverso una necessaria, non superficiale, riflessione sul mutamento avvenuto .
Ci troviamo in un momento in cui apparirebbe necessario sviluppare un discorso riguardante quale soggettività politica potrebbe essere proposta per il riscatto delle grandi masse verso le quali i processi della “post – modernità” hanno finito con l’intensificare il peso e le catene del processo di sfruttamento intensivo e globale causando un vero e proprio allargamento della condizione di classe.
“Condizione di classe”, allargata all’emergenza delle contraddizioni operanti nella società post – moderna e del tutto da risolvere come quella che reca il segno della contraddizione di genere.
“Condizione di classe” che rimane la grande dimenticata nell’epoca in cui viviamo dominata dall’individualismo che finisce con il riconoscersi soltanto nella solitudine del web e causa quel vero e proprio “smarrimento sociale” dalla cui analisi è principiato il nostro ragionamento.
di Franco Astengo