La condanna di Lula: crimine giudiziario e fragilità del progressismo

di Antonio Moscato

Non c’è dubbio che il giudice Sergio Moro, che dice di essersi ispirato alla esperienza italiana di “Mani pulite”, sia senza pudore: ha battuto tutti i record di velocità per rendere in pochi mesi definitiva la condanna di Lula per l’uso di un appartamento di tre stanze che forse gli era stato offerto, ma che non era entrato in suo possesso. A Lula, in riconoscimento dei suoi meriti, sarà concesso di essere recluso non in quelle carceri sovraffollate in cui si muore ogni giorno e in cui scoppiano disperate rivolte, ma in un appartamento per ospiti in una caserma della Polizia federale. Magari, tra qualche tempo, potrà essere anche scarcerato. L’importante è impedire che Lula potesse presentarsi nuovamente alle elezioni presidenziali.

Per capire quanto è scandalosa una simile “giustizia” a due velocità, basta pensare che già nel 2006, quando fu approvata la nuova Ley de drogas, in carcere c’erano 401.236 persone e il Brasile era il 4° paese per numero di detenuti. Dopo 11 anni il numero di detenuti è quasi raddoppiato, ma il 40% dei 726.000 detenuti non è mai stato giudicato (cioè, sta in carcere senza processo) e non ha neppure idea di cosa sia un avvocato. Quindi nessuna indulgenza verso il giudice Moro, che lascia indisturbati i cacicchi della politica, a partire da Temer e Aecio Neves, nonostante siano emerse le prove di favolosi spostamenti di denaro all’estero. Ma perché ha potuto farlo?

La versione prevalente nella ormai disastrata sinistra latinoamericana, fatta propria da Luciana Castellina sul manifesto, è che si tratta di un golpe, iniziato con la destituzione della presidente Dilma Rousseff, per colpire un simbolo della grande speranza di riscatto, la prova che “un altro mondo è possibile”. E si parla solo dell’odio dei ceti possidenti per quel metalmeccanico con le tracce evidenti di un incidente sul lavoro arrivato alla presidenza di un grande paese.

In realtà quello che si dovrebbe cercare di capire è perché sono stati così pochi a difenderlo: lo ammette lo stesso manifesto quando dice che bisogna “che il popolo si unisca di nuovo” e che “riprenda a occupare le piazze lasciate finora troppo vuote”. E si porta come modello la mobilitazione dei Sem terra, che in 20.000 hanno bloccato cinquanta strade… in un paese grande quasi come l’Europa e con 190 milioni di abitanti!

La destra fa il suo mestiere, dunque, inutile sorprendersi, bisogna domandarsi perché ora lo può fare mentre fino a quattro o cinque anni fa collaborava (vendendo i suoi voti, se necessario) con Lula e Dilma. Ne avevo parlato in molti articoli apparsi sul sito da cui ho scelto quasi a caso un paio: Brasile: La doppia desertificazione, politica e reale, Difficile ragionare a sinistra sul Brasile basati su fonti brasiliane; anche la catastrofe elettorale del partito dei lavoratori era stata analizzata tempestivamente: Brasile: il secondo turno conferma il crollo del PT. Se ne volete trovare altri, che hanno seguito nel tempo la trasformazione del progetto progressista, potete cercarli di nuovo facilmente sul sito.

D’altra parte non è una sorpresa l’intervento politico dell’esercito, sia attraverso una spudorata dichiarazione del capo dell’Esercito, generale Villas Boas, che ha espresso l’appoggio delle Forze Armate alla “lotta alla corruzione”, sia attraverso l’attivismo di un ex militare, Jair Messias Bolsonaro, deputato di Rio de Janeiro dal 1991, che pur essendo stato espulso dall’esercito negli anni ’80 oggi fa da ponte con gli ambienti militari più retrivi, con dichiarazioni apertamente razziste sessiste e omofobe, ma anche ultrareazionarie come definire un errore della dittatura di “aver torturato ma non ucciso”. Bolsonaro si candida alle presidenziali e potrebbe andare al ballottaggio, secondo i sondaggisti… Ma il grave non è tanto quel che lui pensa, ma il fatto che in tutta “l’era di Lula” non è stato fatto nulla per intaccare il potere dei militari, e anche dei giudici, che hanno continuato a proteggere gli assassini di militanti e sindacalisti combattivi e a tollerare o beneficiare della corruzione. Il caso di Marielle Franco era solo l’ultimo di una lunga serie. E questo vale per il Brasile, ma anche per Argentina, Uruguay, Cile, Bolivia ed Ecuador, in cui le forze armate golpiste sono rimaste tranquille, ma intatte…Ecco perché non sorprende questa sentenza e la fretta nell’applicarla. Forse non ha sorpreso Lula, che aveva tempo fa dichiarato: “Ho fatto tre campagne presidenziali con programmi un po’ utopistici e le ho perse; poi una con idee razionali e l’ho vinta”. Chissà se trova ancora “razionale” accordarsi con partiti conservatori e corrotti, e appoggiare le multinazionali corruttrici?

Brasile, cosa c’è dietro l’arresto di Lula

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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