di Luigi BRANCATO – MovES
Mark Zuckerberg, Il CEO (Chief Executive Officer, in inglese americano, ndr) del più grande social network del mondo, è stato interrogato ieri, martedí 10 Aprile, da diversi senatori degli Stati Uniti riguardo la presunta fuga di informazioni alla Cambridge Analytica che avrebbe influenzato i risultati delle ultime elezioni presidenziali USA.
La politica “tradizionale”, fatta dalle cattedre di un Parlamento, da leggi e consultazioni e da rappresentanti più o meno democraticamente eletti riconosce – ormai anche ufficialmente – lo sconfinato potere politico del social network.
Durante la testimonianza di Zuckerberg tutti i dettagli, dal suo modo di vestire, al suo modo di rivolgersi ai senatori, la sua postura ed i riflettori puntati su di lui, fanno capire come questo “bravo” ragazzo sia ben più di un imprenditore di successo, o un talentuoso virgulto.
Mark Zuckerberg è a tutti gli effetti, uno dei maggiori attori nella definizione degli equilibri politici mondiali.
Due miliardi e mezzo di persone usano Facebook regolarmente.
Questo offre alla società un profiling pressoché completo della stragrande maggioranza della popolazione mondiale.
Un profiling che spazia dalle preferenze personali, attitudinali e psicologiche a quelle economiche, commerciali, estetiche, sessuali, politiche e sociali.
I dati di queste persone, sono al momento concentrati nelle mani di una piovra che estende i suoi tentacoli in quasi tutto il mondo.
II problema vero è che questi colossi – che ci conoscono ben più di quanto ci conosciamo noi stessi – esulano dal controllo democratico.
Il loro potere politico è, allo stato attuale delle cose, pericolosamente illimitato.
Facebook, così come Google, Microsoft e Apple sono ‘sovrastrutture politiche’, che influenzano, guidano e modificano le opinioni ed il pensiero della collettività.
Un ‘social’, un nome davvero fuorviante, dove tutti hanno la possibilità di esporre la propria opinione potrebbe sembrare il luogo perfetto per il fiorire del pensiero democratico.
Ed invece no. Perché dietro questo apparente strumento democratico si nascondono infimi meccanismi di controllo che possono influenzare, e di fatto influenzano, la diffusione di certe posizioni piuttosto che altre.
Molti potrebbero considerare eccessive queste preoccupazioni, ma forse non sono al corrente che non si tratta di pure speculazioni.
Brad Parscale è stato nel 2016 a capo della campagna elettorale – e raccolta fondi – di Donald Trump sui social.
Gli elettori venivano individuati e bombardati di messaggi personalizzati grazie al data base della compagnia inglese Cambridge Analytica. E in quegli uffici c’erano anche gli analisti di Google e Facebook.
Come mai dentro Facebook non avevano capito che qualcosa non andava avendo là i propri uomini?
La domanda arriva dalla senatrice Maria Cantwell. Zuckerberg, nell’omertà tipica di ogni buon mafioso, dice di non saper rispondere.
Non solo le ridicole giustificazioni, ma anche la vuotezza delle sue promesse, e le finte ammissioni di colpa, sono tipiche non di un imprenditore privato, ma di fatto di un primo ministro – non eletto – di un paese ‘internazionale’ anche se virtuale.
Quello che Zuckerberg ha ripetuto in maniera noiosa ed asfissiante durante l’interrogazione è che gli utenti di Facebook sono in possesso dei propri dati e che accettando le condizioni di utilizzo hanno liberamente deciso di dare accesso a quei dati.
Giustificazioni stupide e ridicole, che esulano dalla possibilità pratica di qualunque utente di leggere qualche centinaio di pagine piene di tecnicismi e di note a piè di pagina all’atto della registrazione ad ogni piattaforma.