Portogallo. Il partito nato nel 1999, dal 2015 nel «patto» di governo con socialisti, comunisti e verdi, è guidato da tre donne che hanno messo al centro i diritti. La portavoce Catarina Martins: «Se oggi abbiamo le unioni civili, le adozioni per le coppie omosex e una legge sulla gender identity, ci assumiamo buona parte dei meriti»
Quando il leader socialista António Costa, nel 2015, decise di non appoggiare la grande coalizione con i conservatori guidati da Pedro Passos Coelho, che avevano appena vinto le elezioni di pochi punti senza però raggiungere la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento, e cercò invece l’alleanza coi tre maggiori partiti di sinistra radicale del paese, Partito comunista, Verdi e Bloco de Esquerda, dalla sede di quest’ultimo, una palazzina gialla in Rua Da Palma a Lisbona, storica base del Partito Socialista Rivoluzionario, prima occupata abusivamente e poi acquistata nel 2007, un grido di speranza e solidarietà si levò unanime, e fra Praça Martim Moniz e Largo do Intendente, in quell’incastro di strade gentrificate e piene di colori, l’afflato politico riprese vigore. Dopo la congiuntura horribilis, di proteste e lacrime, imposta dalla troika europea nel 2011 – gli anni delle feste nazionali cancellate, delle proteste di piazza, dei licenziamenti di massa – una sostanziosa parte di elettori, una sorta di nuova generazione portoghese si potrebbe dire, cominciò a nutrire nuovamente fiducia nella classe politica, e quella coalizione-gerigonça (letteralmente: accozzaglia) che i detrattori amavano sbeffeggiare, confidando nella sua brevissima durata, prendeva silenziosamente campo e credibilità.
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