È giunta ormai al suo ottavo anno la guerra imposta ai siriani. L’insurrezione armata scoppiata nel marzo 2011 ha devastato la Siria, uno dei pochi paesi laici e culturalmente avanzati del mondo arabo. Pur con le sue contraddizioni e i suoi limiti in termini di libertà e di democrazia, il regime era riuscito a garantire una discreta stabilità politica e sociale e un invidiabile equilibrio religioso ed etnico/tribale in una regione dove il fattore religioso e quello tribale sono corde sensibili, facilmente manipolabili (all’occorrenza) per innescare conflitti politici e sociali che portano a interminabili e sanguinose guerre civili.
Ricordiamo il caso dell’Iraq, dove lo scontro interconfessionale tra sunniti e sciiti ha causato a oggi centinaia di migliaia di morti, e quello della Libia, dove è in atto una guerra tra clan ed etnie per la spartizione del paese. I regimi di Saddam Hussein e Gheddafi riuscivano a neutralizzare i due fattori di cui sopra, garantendo per decenni una certa stabilità e coesione sociale. Finché le potenze atlantiste, guidate dagli Usa, scatenarono la guerra contro Libia (2011) e Iraq (2013), perché erano guidati da due regimi – dittatoriali – non allineati, che ostacolavano i loro interessi neocoloniali. La manipolazione, da parte degli Usa e dei loro alleati europei, dell’appartenenza religiosa e tribale è stata determinante nella distruzione dei due paesi.