Ma che cosa sta succedendo?
E’ la domanda un po’ retorica che ci facciamo tutte e tutti quando assistiamo ad un video, ripreso con un telefonino, dove uno studente si avvicina alla cattedra, tenta di strappare di mano il tablet al professore per impedirgli di registrare un voto insufficiente in una interrogazione.
Lo stesso giovane, con veemenza e prepotenza, rimbrotta l’insegnante, gli punta il dito indice della mano destra contro e lo ammonisce: “Ha capito chi comanda?”. La risposta dovrebbe essere, qui sì naturalmente retorica: comanda chi punta il dito; subisce chi ha quel dito indice rivolto verso di sé.
Dunque, un bullismo che si rivolge contro un docente, contro chi insegna, contro un pubblico ufficiale oltre tutto.
Il video, girato da altri studenti che se la ridono nel sottofondo della ripresa, fa l’ormai cosiddetto e risaputo “giro della rete” e diventa altrettanto cosiddettamente “virale” tanto da essere diffuso dalle reti televisive nazionali che si occupano di notizie ventiquattro ore su ventiquattro.
Poi passa nelle mani degli inquirenti che aprono una indagine e denunciano gli autori di quell’atto di prevaricazione e di violenza verbale e di minaccia fisica.
Fin qui la cronaca dell’episodio. Ma il punto ora diviene questo: si tratta davvero di un singolo episodio? Quanti comportamenti di sfida vengono messi in atto da studenti e da genitori di studenti?
Di poche settimane fa era stato il caso di un genitore che aveva malmenato un docente ipovedente per un rimprovero mosso alla figlia…
E’ saltato, sembrerebbe, il piano su cui si reggeva la morale che voleva si rispettasse il docente in quanto portatore di conoscenza e dispensatore della medesima per uno scopo fondato sul piacere personale dell’insegnamento unito al ruolo di servizio pubblico. La diffusione del sapere attraverso la scuola pubblica, quindi un indispensabile bene comune fornito dalla Repubblica, è diventata col tempo un mero esercizio di competizione personale tra studenti e non un momento della vita proteso ad acquisire quella coscienza critica verso il mondo per poterlo meglio interpretare e per avere, alla fine del percorso scolastico, elementi sufficienti per affrontare la vita medesima.
I tempi del “Cuore” di De Amicis, per carità, sono lontani: quelli delle cattedre rialzate che pure anche io ho conosciuto e che avevano lo scopo di innalzare l’insegnante rispetto al resto del corpo della classe e quindi suscitare quella intimidazione, in un certo senso benevola, che era figlia di una concezione un po’ cameratesca della scuola italia.
Fu don Milani a criticare proprio quella impostazione così militaresca, quando gli alunni, se entrava il preside, scattavano per l’appunto sull’”attenti” e gli si concedeva di sedersi solo dopo che il direttore aveva fatto cenno di assenso col capo o con la mano.
Quella era una scuola che incuteva paura al genitore privo di istruzione che andava con un esagerato ossequio a riverire il maestro o il professore per conoscere i regressi o i progressi del figliolo durante l’anno scolastico.
Quella di oggi è invece una scuola al contrario, l’esatto opposto: oggi sembrano essere i maestri e i professori a dover prestare ossequio e riverenza verso alunni e parenti che paiono avere tutto il diritto di difesa ad oltranza dei figli e di accusa senza se e senza ma verso il corpo docente.
E’ evidente che ci troviamo davanti a due eccessi, a due piani inclinati verso una deriva che non può che nuocere al carattere pubblico della scuola e alla sua particolarità: l’essere il luogo, il momento e la fonte della formazione civile e sociale delle giovani generazioni.
Non si tratta soltanto di meri rapporti di potere, di un confronto muscolare tra insegnante ed alunno. Molta cinematografia ci ha insegnato princìpi di gestione del rapporto tra chi istruisce e chi è istruito fondati su un mutuo scambio di esperienze e, del resto, già ben prima è stata Maria Montessori a rivoluzionare proprio quella infausta regola autoritaria generale che governava un tempo le scuole del Regno d’Italia.
Ma la scuola della Repubblica italiana oggi è figlia di un tempo dove ognuno si sente individualmente padrone di azioni che non si riversano solo su sé stesso e delle quali può essere chiamato a rispondere se invade il campo dell’altrui libertà: la scuola oggi è figlia di un tempo dove l’individualismo esasperato ha creato masse di egoisti, privi di una forma anche soltanto minimale di senso civico, che non pensano di non dovere rispondere, per nulla al mondo, a niente e nessuno e che si creano liberi confini mobili di gestione di una propria sfera di influenza e di un arbitrio che non rispetta nessuna regola comune.
Si tratta, in poche parole, di una prepotenza antisociale fondata su una distorta percezione della libertà piegata alle esigenze di chi stimola l’esaltazione del singolo rispetto alla collettività, laddove quest’ultima viene vissuta come una semplice aggregazione di individui e non un corpo sociale ben individuabile e distinguibile con una propria ragione etica, sociale e quindi civile.
La scuola, si diceva, è figlia dei tempi perché i tempi non sono più figli di una scuola che educhi le giovani generazioni ad una forma di civismo laico che scorga nella res publica (quindi nel bene comune per antonomasia) la comune appartenenza, la realtà di popolo.
Non c’è popolo ma solo una somma di individui che si percepiscono come concorrenti l’uno rispetto all’altro: proprio come il libero mercato vuole con la “buona scuola”, con l’alternanza scuola-lavoro, con una frenesia competitiva che crea questi “nuovi mostri”.