Pubblichiamo il testo dell’intervento di Fronte Popolare all’ottavo Forum internazionale Coreano, tenutosi a Seul dal 25 al 27 Aprile, organizzato dal Partito della Democrazia Popolare.

I recenti fatti di sangue in Medio Oriente, che hanno visto l’imperialismo USA e i suoi alleati europei tornare ad attaccare la Repubblica Araba di Siria facendosi scudo di pretesti falsamente umanitari diffusi dal poderoso apparato mediatico di regime, hanno confermato un dato ben noto agli osservatori attenti delle cose del mondo: la tensione internazionale cresce. Lo scontro tra le principali potenze militari della nostra epoca è una minaccia concreta. La crisi strutturale del capitalismo mostra la debolezza dell’ordinamento sociale ed economico vigente e alla violenza delle armi viene affidato il compito di salvare equilibri che altrimenti la Storia condannerebbe a estinguersi.

Nel guardare con lucidità ai pericoli che corre l’Umanità nella nostra epoca, il Fidel Castro degli ultimi anni individuava due punti di possibile conflagrazione dello scenario internazionale: il Medio Oriente, appunto, e la Penisola di Corea. Non a caso, appena pochi mesi fa la Repubblica Popolare Democratica di Corea veniva a sua volta fatta oggetto di gravi minacce da parte dell’amministrazione nordamericana di Trump: sulla linea del 38° parallelo si concentrano ancora, oggi come nel 1953, le paure e le ansie di tutti gli amanti della pace.

Il XX secolo ha dilaniato la nazione coreana, ponendola al centro della manifestazione tangibile della lotta di classe proiettata a livello internazionale che è stata la Guerra Fredda. La mattanza di centinaia di migliaia di coreani nella guerra che ha insanguinato il paese tra il 1950 e il 1953, durante la quale gli Stati Uniti d’America non esitarono ad usare alcune delle più spaventose armi di sterminio a loro disposizione sulle vive carni del popolo coreano pur di mantenere la loro presa mortifera sulla penisola, introduceva dunque un assetto che oggi, in mutate condizioni sul piano internazionale, non ha perso la propria attualità.

Sappiamo come, alla conclusione della lunga lotta di resistenza contro l’Impero del Giappone, il movimento di liberazione coreano si accingesse ad aprire al paese la via della profonda trasformazione di un ordinamento sociale e politico votato al sottosviluppo e marcato dalle forme più feroci di sfruttamento. Proprio la posizione della penisola, però, posta all’estremo del continente asiatico per eccellenza immolato sull’altare della spartizione della superficie terrestre tra gli imperi coloniali che dominavano all’inizio del ‘900, destinava la Corea a fare da frontiera tra due mondi: quello privilegiato e dominante composto dagli Stati Uniti, dalle potenze europee e dai loro satelliti, e quello delle sterminate masse proletarie del Terzo Mondo, decise attraverso la lotta per il socialismo a riappropriarsi dei propri destini e costruirsi una via nuova verso la felicità e la prosperità.

La vittoria della Rivoluzione d’Ottobre prima, poi la sconfitta dei fascismi europei e dell’imperialismo giapponese, infine il trionfo della Rivoluzione cinese, aprivano ai popoli oppressi la prospettiva di una nuova storia. Non a caso furono proprio le potenze capitaliste uscite vincitrici dalla Guerra Mondiale a perdere, nel corso dei primi decenni del dopoguerra, i loro imperi coloniali: la sconfitta del nazismo e del fascismo, e cioè della dittatura aperta e violenta del Capitale finanziario, è stata innanzitutto il prodotto del trionfo del primo Stato socialista della Storia su tutti coloro che avrebbero voluto vederlo distrutto. Quel trionfo aveva in sé un contenuto profondo di liberazione che non poteva non esplodere dopo il 1945. La Corea fu il primo campo di battaglia in cui si scontrarono la possibilità di una nuova alba per l’umanità e il pervicace rifiuto delle tenebre della preistoria capitalista di lasciarsi dissipare.

Sappiamo come la Guerra Fredda voluta dagli Stati Uniti e dai loro alleati divise, o come tentò di tenere divisi, molti popoli. Dalla Germania al Vietnam e allo Yemen, la conservazione del privilegio e dell’arbitrio richiedeva come olocausto lo smembramento di patrie forgiate da processi millenari. La quarantena del mondo nuovo socialista andava mantenuta ad ogni costo, e così la “cortina di ferro” – espressione coniata non a caso da Winston Churchill, ultimo interprete degli equilibri di potere tramontati nel 1945 – venne fatta calare come una ghigliottina su tutta la Terra.

In Corea essa venne difesa dagli eserciti statunitensi e alleati, sotto l’egida ipocrita delle Nazioni Unite, con tutta la brutalità di cui sono capaci gli imperi. Anche l’Italia si macchiò della colpa storica di fornire sostegno materiale e rifornimenti medici alle truppe d’invasione imperialiste. Ai coreani non poteva essere consentita la libera scelta circa quale dovesse essere il loro destino e alla brutalità della guerra di MacArthur e Ridgway fece seguito quella dei loro sottoposti coreani, fino ad oggi estremi difensori della lacerazione della loro stessa patria. La violenza di una guerra mai ufficialmente terminata si continua a manifestare nella brutalità repressiva dei governi sudcoreani, ispirata e sostenuta dai padroni americani.

Oggi, evidentemente, i contenuti dello scontro internazionale tra potenze sono cambiati. Con la fine dell’Unione Sovietica e il venir meno del campo socialista, le possibilità concrete dell’edificazione di un sistema economico alternativo al capitalismo si sono ridotte drasticamente nei paesi che a quella prospettiva continuano ad aderire. Gli Stati Uniti hanno voluto eternare la loro vittoria nella Guerra Fredda formulando un dogma ideologico alla cui ossessiva ripetizione sono state assoggettate generazioni intere: la “fine della storia” proclamata dal pennivendolo del Dipartimento di Stato Francis Fukuyama in un suo famoso saggio d’inizio anni ’90. Il capitalismo deve essere considerato come l’orizzonte ultimo del progresso umano. E tuttavia, a duecento anni dalla nascita di Karl Marx, i difetti insanabili, l’irrazionalità criminale di questo sistema basato sull’accumulazione senza fine di profitti, si sono incaricati di mettere a tacere le menzogne dell’ideologia imperialista. Il sorgere di nuove potenze di stazza continentale in Asia, a cominciare dalla Cina, e l’esplosione della crisi economica che, partita dagli USA, sta sconvolgendo il mondo, dicono della difficoltà sempre maggiore degli Stati Uniti di reggere l’impatto delle dinamiche storiche che portano al superamento della loro egemonia planetaria. Ancora una volta, in questo quadro la Penisola Coreana si trova in prima linea alla frontiera tra due mondi: quello emergente delle potenze asiatiche e quello, dominante ma decadente, dell’imperialismo occidentale.

Molto vi sarebbe da dibattere sulle prospettive del “socialismo con caratteristiche cinesi” teorizzato dal presidente Xi Jinping e molto si dibatte su quali ne siano i caratteri e le contraddizioni. Più univoco è il giudizio sulla debolezza intrinseca e le difficoltà crescenti del capitalismo russo, tutto centrato sullo sfruttamento intensivo delle materie prime. Certamente, la politica estera degli Stati Uniti sotto l’amministrazione di Barack Obama ha individuato con chiarezza una strategia di contenimento della Cina e strangolamento della Russia che, procedendo a occidente attraverso la destabilizzazione del Medio Oriente e a oriente con il costante aumento della tensione in Corea e nel sudest asiatico, mira a riaffermare per mezzo della forza delle armi le gerarchie internazionali imperialiste. Certamente, questi movimenti militari avvengono in uno scenario tutto interno alle logiche di sviluppo del capitalismo che nulla concedono alla libertà e al progresso dei popoli, e questo rende il quadro attuale, se possibile, ancora più pericoloso di quello determinato dalla Guerra Fredda, perché seppure con prospettive diverse, il contenuto essenziale dello scontro odierno si concentra sui meccanismi capitalistici di spartizione del mondo in funzione dell’esportazione e valorizzazione dei capitali.

Per il popolo coreano, separato dalla frontiera artificiale stabilita nel 1953, la nuova contrapposizione internazionale in atto porta lo stesso messaggio di quella vecchia: per l’imperialismo occidentale è assolutamente intollerabile lasciare i coreani liberi di decidere autonomamente del proprio destino, di scegliere la propria forma di governo e il proprio ordinamento sociale, di determinare nel solco della propria storia e delle proprie aspirazioni quale debba essere il loro destino. La Corea del Sud si conferma come necessario avamposto politico, economico e militare per il contenimento delle insorgenti potenze asiatiche, mentre la Corea del Nord rimane un cuscinetto che separa i due mondi in conflitto e impedisce alle loro frontiere di toccarsi. Una condizione, quella della RPDC, che rende evidente la necessità di una politica di sviluppo militare autonoma anche rispetto agli alleati cinesi e russi che Pyongyang continua a perseguire a costo di gravi sacrifici materiali che ne penalizzano significativamente lo sviluppo economico.

In modo non dissimile da quanto avviene in Italia – penisola strategica per il controllo del Mediterraneo e quindi tenuta sotto il tallone statunitense e punteggiata di oltre un centinaio di basi militari USA e NATO nelle quali sono stoccate anche armi nucleari – la Repubblica di Corea è usata come una gigantesca base militare statunitense. La presenza di decine di basi militari e oltre 30.000 soldati degli Stati Uniti sul suolo sudcoreano, che a sua volta figura tra le aree del mondo che ospitano armi nucleari, s’impone come il fattore decisivo della vita nazionale. Nei suoi mari si svolgono ciclicamente grandi manovre navali destinate a tenere alta la tensione con la RPDC e a mandare un costante segnale a Cina e Russia: gli armati dell’impero americano sono sempre alle porte e pronti a colpire. Il costo economico di questo spaventoso apparato di occupazione è, per il popolo sudcoreano, altissimo: nel solo 2014 Seoul ha dovuto pagare a Washington qualcosa come 1.000 miliardi di won (ossia circa 900 milioni di dollari) di partecipazione al finanziamento di tale presenza.

È noto come il governo della RPDC reagisca a tale situazione. Al delinearsi del nuovo ordine mondiale instauratosi con la fine della Guerra Fredda ed emblematicamente inaugurato dalla criminale guerra neocoloniale nel Golfo Persico del 1991, il governo di Kim Il Sung e Kim Jong Il rispose ritirandosi dal Trattato di non proliferazione nucleare, sottoscritto nel 1985, avviando un programma nucleare destinato a trasformare la RPDC in una potenza atomica.

Un parallelo programma di sviluppo missilistico ha messo il governo della Corea del Nord in condizione di attuare rappresaglie ritorsive dagli effetti disastrosi contro il Giappone e la costa occidentale degli USA, qualora questi si risolvessero ad attaccare il territorio della RPDC. Negli ultimi mesi, sotto la guida di Kim Jong Un, il programma missilistico nordcoreano ha mostrato al mondo i propri successi, consolidando l’autonomia della politica militare della RPDC rispetto a qualunque protettore straniero.

Sulla base di tale nuova situazione, la Corea del Nord si è imposta come interlocutore paritario tanto agli Stati Uniti quanto alla Cina e alla Russia. Il decadere delle minacce di aggressione militare formulate da Donald Trump lo scorso agosto e la nuova disponibilità dell’amministrazione statunitense ad aprire il dialogo con il governo di Pyongyang, hanno definitivamente dimostrato come il programma nucleare nordcoreano non solo non fosse volto a mettere in discussione la pace nella Penisola, ma anzi abbia funzionato da fattore di stabilizzazione del quadro politico e di deterrenza nei confronti dell’eventualità di un attacco militare imperialista.

Siamo quindi di fronte al più spaventoso dei paradossi prodotti dall’imperialismo: la proliferazione delle armi di distruzione di massa e l’equilibrio del terrore rappresentano la più efficace difesa per i popoli contro i pericoli della guerra. La rottura del monopolio imperialista nella capacità di sviluppare azioni militari distruttive su larga scala, frenando le pulsioni guerrafondaie dei potentati economici e dei comandi militari, rende meno incombente il rischio, per popoli interi, di essere riportati all’età della pietra dalle bombe al fosforo bianco o all’uranio impoverito e dai droni telecomandati da migliaia di chilometri di distanza che hanno annientato paesi un tempo prosperi come la Jugoslavia o la Libia. Questo è il contenuto tanto della vicenda coreana quanto, ad esempio, della crescita della potenza militare dell’Iran, pur ancora non approdata allo sviluppo di armi atomiche. E tuttavia, questa boccata d’ossigeno è indissolubilmente legata al diffondersi di quegli strumenti la cui esistenza stessa rende precari i destini della civiltà umana.

Proprio in questo scenario stridente e minaccioso si colloca la lotta democratica del popolo della Corea del Sud. La capacità di questo popolo, diviso in due da una frontiera artificiale imposta dalla volontà straniera, di affermare se stesso e di conquistarsi il benessere, il progresso e migliori condizioni di vita è unita indissolubilmente ai destini dell’Umanità intera. Più forti si manifesteranno le istanze di liberazione, dignità e pace in seno alla Repubblica di Corea, più l’Umanità potrà sentirsi protetta dal rischio di un nuovo conflitto mondiale generato a partire dalla Penisola Coreana. Per questo motivo, le lotte delle lavoratrici e dei lavoratori di Corea, dei suoi attivisti per la pace, del suo movimento studentesco, meritano una speciale attenzione e solidarietà da parte del mondo intero.

La storia della Repubblica di Corea è stata fino ad oggi segnata da un alternarsi di fasi di relativo allentamento della repressione a periodi spietati di dittatura. Molti eroici patrioti e lottatori sociali della parte meridionale della Penisola di Corea sono stati incarcerati e assassinati per la loro opera di organizzazione dei settori più avanzati delle classi lavoratrici coreane. Per tutti costoro, liberazione dal giogo imperialista, riunificazione della patria e costruzione di un’autentica democrazia fondata sul potere popolare sono sempre state parti integranti di un’unica battaglia rivoluzionaria e patriottica. Senza tenere insieme questi tre elementi inscindibili, dare la necessaria guida politica alle aspirazioni profonde di unità, pace e indipendenza del popolo coreano tutto sarebbe semplicemente impossibile. E questo per una ragione semplice e profonda: perché l’intero assetto politico e sociale della parte meridionale della Penisola Coreana è frutto di scelte imposte, pattate dalle classi dominanti del paese direttamente con i dominatori statunitensi, finalizzate a fare della Repubblica di Corea un bastione del capitalismo nell’emisfero orientale.

Coerentemente con la sua militarizzazione, alla parte meridionale della nazione coreana è stata negata ogni possibilità di scelta. Un sistematico lavorio di propaganda ideologica ha costruito le condizioni per alterare egemonicamente il senso comune della popolazione e mettersi al riparo dallo spontaneo dilagare delle istanze di cambiamento più radicale. La Corea è andata caratterizzandosi come patria di un popolo reso infelice dall’impossibilità di divenire davvero padrone dei propri destini, ma molti dei figli del quale non hanno mai abbandonato la determinazione a conquistarsi una volta e per sempre l’indipendenza e la libertà.

In quale relazione questa battaglia debba porsi rispetto alle specificità del sistema sociale e politico della RPDC, spetterà ai coreani stessi definirlo in un processo storico concreto. La Corea unificata dovrà riunire due metà che nei decenni hanno assunto una fisionomia ben distinta finanche dal punto di vista linguistico, senza però che ciò significasse perdere il senso della propria incancellabile unità. Mentre nella parte settentrionale del paese resta molto da fare per creare un’economia socialista capace in pieno di sostentare lo sviluppo civile e sociale del popolo, nel sud lo sviluppo capitalista delle forze produttive ha generato certamente un’elevata capacità economica, ma spingendo a livelli altissimi al processo di alienazione del lavoratore già descritto da Marx e determinando condizioni di sofferenza materiale, morale e psicologica aggravate dalla costante, pressante rappresentazione della proibizione di fare scelte alternative che pesa come una cappa su ogni abitante del territorio della Repubblica di Corea. Alla mitizzazione del progresso tecnologico, all’esaltazione della produttività e della dedizione senza limiti al lavoro, fanno riscontro sacche estese di povertà nascosta, negata, rimossa come l’emblema della cattiva coscienza di un sistema che spinge alla massima espressione le caratteristiche più antiumane del modo di produzione capitalistico.

Proprio perché consapevoli di questa realtà, guardiamo con grande ammirazione e vivo interesse alle forme radicali che assume il conflitto sociale nella Repubblica di Corea. Le contraddizioni stridenti di una società spietata non cessano di manifestarsi in scioperi altamente conflittuali, in un esteso movimento degli studenti, nella tenace resistenza delle forme politiche organizzate del movimento operaio. A ogni passaggio repressivo, la sinistra di classe ha saputo rispondere riorganizzandosi e riprendendo ad avanzare.

Nel dicembre del 2014, la dissoluzione da parte delle autorità del Partito Progressista Unificato, la dichiarazione di decadenza dei suoi parlamentari e l’arresto di uno di loro ha destato lo sdegno di tutti i sinceri democratici. Si è trattato di una delle manifestazioni più vergognose del carattere autoritario del governo corrotto di Park Geun-hye, la cui caduta rappresenta un’importante vittoria per il popolo coreano. La fondazione e il consolidamento del Partito della Democrazia Popolare, la sua crescente e organizzatissima presenza tra le masse, la sua capacità di dare forma di azione politica alle aspirazioni di pace e liberazione sociale del popolo della Corea del Sud, è la più evidente dimostrazione della capacità di resistenza delle avanguardie delle classi lavoratrici coreane.

In condizioni diverse, noi rappresentanti delle avanguardie ancora non domate del popolo italiano ci sentiamo uniti da una profonda comunanza alle battaglie che si combattono nel sud della Penisola Coreana. Nella battaglia comune per l’espulsione dai nostri paesi delle basi di guerra, per una reale indipendenza nazionale che apra la via al potere popolare, per la rottura di ogni legame con le organizzazioni internazionali imperialiste, per spezzare il potere dei monopoli privati e mettere sotto controllo democratico l’economia, sta il contenuto profondo di una lotta che è necessariamente internazionale e che deve essere coordinata a livello mondiale in una strategia unitaria di classe: quella per liberare l’Umanità dallo spettro dell’annientamento e aprirle la via per la costruzione di un nuovo ordinamento sociale, capace di assicurare la felicità, lo sviluppo e il progresso con giustizia a tutti i popoli del mondo.

05/05/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: Foto di gruppo dei partecipanti al Forum internazionale coreano, Seul, aprile 2018

https://www.lacittafutura.it/esteri/pace-e-unificazione-della-penisola-coreana-una-lotta-vitale-per-il-mondo-intero

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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