di Àngel Ferrero*
Traduzione dallo spagnolo di Cristiano Dan. I titoletti in grassetto sono redazionali.
Il tema è la crescita, negli ultimi anni, di questa nuova destra radicale e i motivi per i quali questa ondata è andata espandendosi in tutta Europa: ciò che ne fa, pertanto, non un fenomeno occasionale, anche se, com’è logico, in ogni Paese presenta caratteristiche proprie.
In una recente intervista a Virginie Despentes su «El Confidencial» [1] che ha avuto una notevole diffusione nel nostro Paese, si faceva alla scrittrice francese la stessa domanda che ci poniamo qui: perché i lavoratori votano per la destra e per l’estrema destra? Despentes rispondeva: «Attenzione: non sono solo gli operai a votare per l’estrema destra. Lo fanno anche i ricchi e i privilegiati, e anche contro i propri interessi».
Si tratta di una risposta misera, che non dovrebbe soddisfare nessuno. Effettivamente, anche i ricchi e i privilegiati votano per i partiti di destra, ma è il voto dei lavoratori quello che dovrebbe preoccuparci. Perché i lavoratori sono, oggettivamente, la maggioranza sociale, mentre non lo sono i ricchi e i privilegiati. Sono i voti dei lavoratori – o il loro astensionismo – quelli che decidono del risultato di una elezione. Ed è per questo motivo che nelle democrazie contemporanee si dedicano tante risorse per influenzare la loro opinione.
Riporto la seconda parte della risposta di Despentes, perché è anch’essa illuminante per la questione di cui oggi qui ci occupiamo. «Sei gay e di estrema destra? Ma dici sul serio? Sei ebreo e di estrema destra? Ma dici sul serio? […] [In] Francia c’è una fortissima propaganda, dall’alto, a favore dell’estrema destra: ogni giorno vediamo Marine Le Pen alla tele, la sentiamo alla radio, giorno dopo giorno. E gli operai guardano la tele, ascoltano la radio, e votano di conseguenza».
Quest’ultimo argomento di Despentes non è solo misero: è pericoloso. La teoria dell’iniezione ipodermica, secondo la quale il pubblico è una specie di ricettacolo vuoto che gli strumenti di comunicazione “riempiono” di contenuto, è del tutto screditata. Peggio ancora: ritiene che questo ricettacolo vuoto siano gli altri, non sé stessi.
Questa non è una conferenza accademica – e del resto io non sono un accademico – e non entrerò nei dettagli di tutti gli aspetti di questo fenomeno. Si possono però sottolineare alcune delle cause che lo spiegano.
Contrariamente a quel che crede Despentes – e credono molti altri militanti di sinistra e cittadini senza appartenenza politica – un discorso politico non mette radici se il terreno non è favorevole. È necessario ricordare che molti dei politici e dei partiti che si citano quando si parla di questa questione non solo non disponevano dell’appoggio degli strumenti di comunicazione di massa e dell’industria culturale, ma addirittura godevano di “cattiva stampa”. E nonostante ciò conseguirono successi importanti.
Nelle ultime elezioni negli Stati Uniti, per esempio, Hillary Clinton ebbe il sostegno di 500 mezzi di comunicazione, contro i 28 di Donald Trump: una cifra, quest’ultima, inferiore anche a quella dei media che si limitarono a chiedere di non votarlo, e che furono 30. Clinton aveva il pubblico appoggio di molte star del cinema e della musica. Viceversa, ben poche di queste chiesero il voto per Trump: Jon Voight e James Woods sono queste eccezioni. Si è trattato di un classico caso di spirale del silenzio, quando non si esprimono opinioni impopolari per timore dell’isolamento sociale.
In tutti questi politici e partiti di destra troviamo una caratteristica comune: sono stati tutti capaci di cogliere il malcontento popolare e di sfruttarlo demagogicamente a proprio vantaggio. Un malcontento diretto principalmente verso questa fase di espansione del tardo capitalismo, che è stata chiamata “globalizzazione”, e sulle sue conseguenze sociali, avvertite con maggior durezza dopo la crisi finanziaria mondiale del 2008.
La crisi delle due correnti del movimento operaio. Se essi sono stati in grado di farlo, ciò è dipeso dalla crisi delle due grandi correnti del movimento operaio nella seconda metà del XX secolo: il comunismo e la socialdemocrazia, con i sindacati legati a quest’ultima. A grandi tratti, questa crisi comincia negli anni Settanta e si accelera nei Novanta, con la disintegrazione dell’Unione Sovietica e del campo socialista.
Alle cause, endogene ed esogene, di questa crisi si potrebbe dedicare tutta un’altra relazione. Limitiamoci a segnalarne qui due conseguenze. La prima è la scomparsa del tessuto associativo collegato al movimento comunista e alla socialdemocrazia, che costituiva uno spazio di organizzazione politica, ma anche di comunicazione e di socializzazione. La seconda, parallela alla prima, è la crisi del pensiero politico, che si consolida nella diffusione del post-strutturalismo – più comunemente noto come post-modernismo – fra gli intellettuali di sinistra e nella loro sconnessione con la realtà sociale.
Queste due conseguenze lasciano i quartieri operai abbandonati alla deriva ed esposti, senza alcun contrappeso, a una cultura di massa alienante e consumista diffusa dai mezzi di comunicazione. È di questo vuoto politico che la nuova destra ha saputo approfittare.
Questa situazione che ho descritto dovrebbe farci respingere i ricorrenti parallelismi con gli anni Trenta e l’ascesa del fascismo in Europa, che fu una reazione organizzata e violenta contro il movimento operaio e contro l’influenza della vittoria della rivoluzione socialista in Russia. Anche se a livello ideologico vi possono essere alcune caratteristiche comuni – come il culto della tradizione, il disprezzo per i deboli o il nazionalismo escludente da grande nazione – questo parallelismo non regge, poiché lo spazio ideologico entro cui si collocano questi partiti è molto più ampio.
Ho già detto prima come molti di questi partiti non solo non hanno l’appoggio dei mezzi di comunicazione e dell’industria culturale, e nemmeno di alcuni settori dell’economia – come le nuove tecnologie digitali -, ma ne sono addirittura condannati: ciò che non fa che aumentare la loro attrattiva agli occhi dell’antica classe operaia industriale; agli occhi dei figli di quest’ultima, che si barcamenano fra la disoccupazione e impieghi a tempo mal pagati nel settore dei servizi; agli occhi di ciò che resta d’una classe media che teme di perdere le proprie posizioni; e agli occhi di un mondo rurale praticamente scomparso dai discorsi della sinistra.
Quando questi partiti arrivano al governo abbandonano le rivendicazioni sociali dei loro programmi – si tratti dell’illusoria promessa di un ritorno al capitalismo dorato del dopoguerra nel mondo anglosassone o dell’offerta di programmi di lavori pubblici nell’Europa continentale – e si trasformano nel randello del neoliberalismo, in alcuni casi nel significato letterale del termine. Lo abbiamo visto negli Stati Uniti con Trump, in Austria con il governo di coalizione fra i conservatori e il FPÖ o in Finlandia con la partecipazione del Partito dei veri finlandesi al governo conservatore.
Parlare delle vittorie di questa destra comporta, necessariamente, anche parlare delle sconfitte della sinistra. Il rifiuto della sinistra da parte della classe lavoratrice, e anche di settori della classe media che prima votavano partiti di sinistra, è in relazione con l’integrazione di buona parte della sinistra post-Sessantotto nei sistemi politici occidentali. Nancy Fraser ha addirittura parlato di un «neoliberalismo progressista» [2], che definisce come «un’alleanza delle principali correnti dei nuovi movimenti sociali (femminismo, antirazzismo, multiculturalismo e diritti LGBTQ), da una parte, e settori d’affari d’alta gamma “simbolica” e dei servizi (Wall Street, Silicon Valley e Hollywood), dall’altra.
«In questa alleanza, le forze progressiste si sono effettivamente unite alle forze del capitalismo cognitivo, soprattutto con la finanziarizzazione […]. Il risultato è stato un “neoliberalismo progressista” un amalgama di frammentari ideali di emancipazione e di forme letali di finanziarizzazione. Fu questo amalgama che gli elettori di Trump rifiutarono in blocco […]. Per loro, al danno della deindustrializzazione si aggiungeva l’insulto del moralismo progressista, che s’era abituato a considerarli culturalmente arretrati. Rifiutando la globalizzazione, gli elettori di Trump ripudiavano anche il liberalismo cosmopolita identificato con quella».
La frammentazione e degradazione delle lotte. Se la lotta delle donne si riduce a uno pseudo-femminismo meritocratico, consistente in quote di rappresentanza nei consigli d’amministrazione delle imprese; se l’ecologismo si limita a una scelta di consumi sconnessa dal potere d’acquisto della classe lavoratrice; se il discorso sui diritti umani non è altro che la carità organizzata sotto forma di ONG e la difesa dei cosiddetti “interventi umanitari”, con l’inutile morte di soldati in conflitti imperialisti; se l’internazionalismo viene confuso con la difesa della globalizzazione, anche quando – e magari ancor più – si tratta di una “globalizzazione alternativa” a quella dei ricchi, e alla quale si può accedere unicamente attraverso il consumo sotto forma di viaggi o di studi e interscambi universitari con l’estero; se la sinistra politica si presenta, in definitiva, con questo programma, difficilmente la classe lavoratrice – che ormai non può più affermarsi mediante il consumo, come faceva prima che scoppiasse la crisi – potrà identificarsi con la nuova sinistra e considerarla rappresentante e sostenitrice dei suoi interessi materiali.
E tutto ciò, del quale la stessa nuova sinistra sembra non rendersi conto – quantomeno se ci si basa sui dibattiti pubblici – lo sa perfettamente la nuova destra. «Più parlano di politiche identitarie, più li tengo in pugno», ha confessato Steve Bannon, l’ultimo direttore della campagna elettorale di Trump, al giornalista Robert Kuttner, della rivista «American Prospect» [3]. «Vorrei che parlassero tutti i giorni di razzismo: se la sinistra si concentra sulle questioni di razza e di identità, e noi invece sul nazionalismo economico, schiacceremo i Democratici». Si potrebbe legittimamente definire la sua strategia – è una battuta, ma non del tutto – come un “leninismo di destra” [4]: individuare l’anello debole della catena, sfruttare le contraddizioni, produrre egemonia e conquistare la classe operaia.
«Sei gay e di estrema destra? Ma dici sul serio? Sei ebreo e di estrema destra? Ma dici sul serio?», si chiedeva Despentes nell’intervista che ho prima ricordato. La signora Despentes anche su questo punto sembra essere molto disinformata. Anche se per molti aspetti la nuova destra si basa su presupposti patriarcali e antisemiti – in modo particolare le teorie complottiste -, nulla di ciò che meraviglia Despentes è incompatibile. In questo spazio politico incontriamo omosessuali: Pim Fortuyn, Milo Yiannopoulos, Peter Thiel, o l’ex presidente del Fronte nazionale francese Florian Philippot [5]. Inoltre, questo spazio politico non solo non è tutto antisemita, ma in molti casi, soprattutto negli Stati Uniti, è anche aggressivamente filosionista. E non solo: dopo l’assassinio di Fortuyn, in Olanda, il suo partito è stato diretto da un immigrato di Capo Verde, e sappiamo anche, attraverso i mezzi di comunicazione, che vi sono figli di immigrati arabi e caribici che nelle ultime elezioni presidenziali hanno appoggiato Le Pen, anche nella sua proposta di limitare la politica di immigrazione, poiché vedono i nuovi immigrati come concorrenti diretti per i posti di lavoro.
Le risposte di Despentes sono in ogni modo sintomatiche: pensiero debole, deperimento delle categorie sociali e universali d’origine repubblicana, e trionfo delle politiche identitarie.
Lo ha spiegato bene il marxista francese Jean-Loup Amselle: «Questo deperimento, assieme a quello dell’universalismo, è in corso dal 1968. Si tratta di un fenomeno lento, che procede anche attraverso la squalifica del prisma analitico del marxismo, data la diffamazione subita da quest’ultimo inteso come intrinsecamente legato al totalitarismo» [6].
Questa diffamazione, dice Amselle, «nella congiuntura post-sessantottesca, postmoderna, postcoloniale, ha facilitato la sostituzione dell’analisi in termini orizzontali, di classe, con una maniera di sezionare la società in strati e fette frammentarie, ciò che io definisco “tagli verticali”. Questa tematica dei “frammenti”, della moltitudine, è stata notoriamente formalizzata da Toni Negri, ma anche da tutta quella corrente nota internazionalmente come French Theory». E anche ora che alcuni media parlano della riscoperta delle classi sociali, e in particolare della classe lavoratrice, lo fanno però in una prospettiva identitaria, sulla base di preferenze culturali o di codici estetici – spesso stereotipati – e non su quella della sua collocazione nel sistema socioeconomico.
Altra conseguenza di questa politica della quale parla Amselle è un «doppio fenomeno di rivendicazione identitaria». Cito: «Da una parte, aumentano le rivendicazioni minoritarie dei gruppi che si sentono discriminati, oppressi, emarginati». Un fenomeno che, come l’ecologismo, è stato trasformato in un’etichetta commerciale da coloro che Amselle definisce «impresari dell’etnicità e della memoria», persone che parlano «a nome di questi gruppi, formati da loro e di cui si proclamano portavoce, al fine di monopolizzare a proprio vantaggio alcune rivendicazioni inizialmente poco articolate e disperse». L’identità, ricorda Amselle, è in realtà «multipla», ed esiste «in funzione del contesto di interlocuzione», mentre «le rivendicazioni monopolizzate da questi impresari dell’etnicità e della memoria ne rinserrano gli attori in mono-identità».
E si tratta di un fenomeno “doppio” perché la promozione di queste rivendicazioni identitarie da parte della sinistra accademica ha avuto per effetto che i lavoratori “bianchi” occidentali vedano ora sé stessi, in contrapposizione agli altri gruppi, più come “bianchi”, “occidentali” e magari “cristiani” che come parte di una catena mondiale di produzione di plusvalore, nella quale hanno interessi comuni con altri lavoratori, arrivando addirittura a sostenere di avere “scoperto” o “riscoperto” questa “identità” che avvertono ora come praticamente “persa” o “minacciata”.
I politici della nuova destra diventano così i gestori “dell’etnicità e della memoria” di questo gruppo. Non identificandosi più con gli altri lavoratori, è più facile che i lavoratori occidentali vedano nei leader dei partiti della nuova destra uomini e donne che – come suol dirsi – “hanno avuto successo”, proiettando su di loro l’aspirazione ad abbandonare la classe cui appartengono oggettivamente e a salire di qualche gradino nella scala sociale, non fosse altro che per recuperare il potere d’acquisto perso con la crisi.
C’è una via d’uscita dal labirinto. La diagnosi di Amselle indica la via per uscire da questo labirinto nel quale la sinistra s’è infilata: e va anche detto che buona parte dei suoi intellettuali organici vi si è infilata con entusiasmo, perché occupandosi di queste questioni, anziché di quelle politiche ed economiche, ne ottenevano più vantaggi accademici e meno mal di testa di carattere filosofico e analitico. La via è quella che passa attraverso l’abbandono d’un pensiero politico che fraziona la sinistra, rinchiudendola in torri d’avorio fra loro incomunicanti.
Come ha scritto Mark Fisher in un suo saggio del 2013 [7], questo tipo di discorso ci ha sospinto in un tunnel «oscuro e demoralizzante, in cui la classe è scomparsa e il moralismo pervade tutto, dove la solidarietà è impossibile, ma la colpa e la paura sono onnipresenti: e non perché siamo terrorizzati dalla destra, ma perché abbiamo permesso che modi di soggettività borghese abbiano contaminato il nostro movimento».
Fisher ha definito questa nuova sinistra, con una significativa presenza nelle reti sociali, come il «castello del vampiro». I cui abitanti, spiegava, sono prigionieri di un triplice desiderio: quello del sacerdote, di scomunicare e condannare; quello dell’accademico pedante, di essere il primo a individuare un errore; e quello dellohipster, di voler far parte di un gruppo invece di «cercare un mondo nel quale tutti possano liberarsi dalle classificazioni identitarie».
Nel «castello del vampiro» tutti vivono rinchiusi «in campi identitari», definiti «in termini imposti dal potere dominante» e «isolati da una logica di solipsismo che insiste sul fatto che non si può comprendere l’altro se non si appartiene allo stesso gruppo».
Già nel 2013 Fisher evidenziò come in quelle lunghe discussioni su Twitter sopra iprivilegi c’era «un meccanismo di proiezione e di rifiuto per il quale anche la semplice menzione della classe era intesa come una sottovalutazione dell’etnia e del genere». In realtà, diceva, quel che capita è l’esatto contrario: si ricorre a una definizione liberale di questi ultimi per «oscurare il concetto di classe», sino al punto di disarticolarlo da altre categorie. Il concetto di “intersezionalità”, che appare frequentemente come la soluzione magica, è usato, appunto, come ostacolo a questo tentativo di articolazione.
«Il castello del vampiro», scriveva Fisher, «si alimenta dell’energia, dell’ansia e della vulnerabilità di giovani studenti, ma soprattutto vive trasformando la sofferenza di gruppi particolari, e più sono “marginali” tanto meglio, in capitale accademico. Le figure più ammirate nel castello del vampiro sono quelle che scoprono un nuovo mercato della sofferenza: coloro che riescono a trovare un gruppo più oppresso e sottomesso di qualunque altro prima saranno rapidamente innalzati nella scala dei valori».
I risultati di questa impostazione li hanno toccati con mano, per così dire, ricevendo ceffoni: nella misura in cui la nuova destra accumulava successi elettorali e si evidenziava il fatto che esiste un mondo reale al di là delle reti sociali. La soluzione non consiste nel rinchiudersi in torri d’avorio – e tanto meno in torri d’avorio all’interno di quelle già esistenti -, né nel leggere media digitali, né nel guardare programmi televisivi domenicali che ribadiscano, in modo autocompiacente, il proprio modo di vedere il mondo, invece di prestare ascolto a opinioni diverse, per quanto sgradevoli possano risultare.
Si tratta, in definitiva, di abbandonare questo pensiero la cui matrice è ciò che si è chiamato postmodernismo e di ritornare a categorie di carattere universale, repubblicane, che fanno riferimento alle maggioranze sociali. Ciò che non comporta, evidentemente, l’accettazione acritica delle opinioni xenofobe o maschiliste che possono avere molti lavoratori. Occorre anche recuperare, ricostruire e rafforzare quel tessuto sociale e associativo popolare oggi tanto deteriorato. In caso contrario, la nuova destra nazional-conservatrice continuerà a guadagnare terreno. E non ci si potrà meravigliare.