Chi non vuole governare? A prima vista sembrerebbe che tutte le forze politiche siano pronte a prendere in mano le redini di Palazzo Chigi, a ben vedere, invece, nessuno vuole rimanere – come si suol dire – col “cerino in mano”. Ed è un cerino parecchio scottante perché tra le misure da affrontare c’è il potenziale aumento dell’IVA che, nel bene o nel male, significa comunque un intervento di maggiorazione delle tasse indirette che, seppure distribuite su prodotti acquistabili da tutti, incidono differentemente a seconda della condizione economica in cui si vive.
Dunque, nemmeno col terzo frettoloso giro di consultazioni il Capo dello Stato è riuscito a concludere nulla nella ricerca della formazione di una maggioranza parlamentare con il risultato uscito dalle urne il 4 marzo scorso.
La classe imprenditoriale vuole un governo che sia anche riconosciuto dall’Europa come pienamente affidabile e, per ovvi motivi, non lo potrebbe essere a guida Di Maio con vice Salvini: le due forze più marcatamente populiste del Paese non sono quelle che, insieme, possono gestire una fase di riequilibrio dei conti pubblici e di protezione dei privilegi e dei profitti dei privati.
Separati possono giovare a questo scopo: magari la Lega insieme alla “moderata” Forza Italia; magari i Cinquestelle con alleato l’odiato Partito democratico. Una parte di populismo per tenere buono, per l’appunto, il popolo e una parte di moderatismo che si fa filtro delle pretese padronali e della grande finanza internazionale diventando garante di una maggioranza anche a tempo per fare poche cose e tornare al voto in autunno.
Invece sembra che un governo di scopo sia escluso e che ora si punti ad un esecutivo “neutrale”.
L’aggettivazione è quanto meno bizzarra ma rende bene la crisi che intercorre non solo tra le forze politiche, tra i cosiddetti “tre poli”, ma evidenzia nettamente come una legge elettorale che deforma la democrazia renda impraticabile, tra l’altro, l’esercizio pieno della funzione di mediazione da parte del Quirinale.
Il bene che ne viene, dal “terribile” ritorno della proporzionale (per quanto possa dirsi tale l’impianto del Rosatellum…) è l’emersione di una dicotomia molto ampia tra la necessità della formazione di un governo per vie parlamentarie e l’inadeguatezza delle forze uscite vincitrici dal voto a mettere in pratica questa semplice azione costituzionale.
Si può dire che esse rappresentino così davvero quello scollamento tra società e palazzo che viene evocata spesso per comprendere i moderni fenomeni di aumento del consenso per le parti politiche cosiddette dell’”antisistema” da un lato e dell’”anticasta” dall’altro.
Oppure si può dire che non siano in grado di formare un blocco “padronale” esclusivo, compatto, nonostante tutti e tre i poli siano interpreti dei desiderata politici di una borghesia in concorrenza sempre con sé stessa tra grandi e medi possidenti.
Ciò che è certo è che questa legislatura rischia di essere la prima nella storia repubblicana senza un governo fatto e formato, votato e approvato dal Parlamento.
Ciò che è certo è che andare al voto in piena estate, magari a fine luglio, rappresenterebbe già di per sé, più che una novità, una sconfitta di un regime democratico che verrebbe messo sotto accusa non tanto a partire dalla legge elettorale quanto dal carattere parlamentare della Repubblica.
Maggiori poteri al Capo dello Stato, ad esempio, saranno certamente i contenuti di proposte per un neo-presidenzialismo che crei i governo senza bisogno della dialettica che oggi la Costituzione esige.
In momenti di crisi istituzionale esiste sempre un vuoto di attenzione popolare rispetto alla partecipazione: due mesi di batti e ribatti, di colpi e contraccolpi tra Di Maio, Salvini, Berlusconi, Martina e Meloni hanno dato vita ad una retorica insopportabile, sciorinata da tutte le trasmissioni televisive che hanno speso ogni possibile commento per ripetere l’ovvio, il banale, il minimo cui si poteva aspirare.
La vacanza governativa non è coperta da un movimento di società che vuole rimettere in piedi proprio la partecipazione mancante. Non esiste un contraltare sociale che faccia da guida alle forze politiche litigiose. Soprattutto a sinistra siamo diventati spettatori, inattivi, assertori del mutualismo come panacea di tutti i mali del capitalismo senza capire che si tratta di un modo per cambiare cultura politica, per dire che il Palazzo lo si può anche scansare ma che ci si deve impegnare a tutto tondo nel sociale.
Sembra diventato impossibile creare dei connubi, delle sintesi, delle simbiosi tra politico e sociale. Un nuovo rasoio di Occam ci ha spiegato con un postulato semplice, senza bisogno per l’appunto di altri fronzoli, che la moderna sinistra bada poco a questi giochi di palazzo e che vuole invece ricostruirsi da un basso che non esiste perché non ci sono due culture che si scontrano: antiegualitaria ed egualitaria. Esiste soltanto il dominio di un pensiero unico che si mostra come il più accondiscendente possibile verso chi protesta ma che ferma la protesta al livello dell’indignazione per la violazione delle leggi.
Il sistema economico nel suo complesso è accettato da tutti e tre i poli che non riescono a formare un governo. Non c’è alternativa di sinistra e nemmeno sinistra di alternativa.
Per questo ogni chiacchiera e commento sulla probabile inesistenza di un esecutivo in questa legislatura non ha altro sapore se non quello del tatticismo e non riflette nessuna impostazione antisociale come invece dovrebbe. Il “meno peggio”, paradossalmente, diventa il “meglio” certificato dall’assenza del meglio medesimo.
Un governo Cinquestelle-PD è il meglio del peggio che circola.
Ma ora si attende il nome che il Presidente della Repubblica farà per provare a far arrivare il Paese al voto almeno in autunno: dunque tutto rimane nell’incertezza e i mercati si augurano un governo tecnico che non si comprende bene quale maggioranza possa avere per nascere.
Qualunque possa essere quella che riuscisse a raccattare, non sarebbe che un pallido riflesso di quelle che hanno sostenuto i governi cosiddetti “tecnici” che tanto danno hanno fatto al Paese prima dell’avvento di Renzi.
Il gioco può ripartire dal “via”…

http://www.lasinistraquotidiana.it/wordpress/senza-governo-senza-sinistra/

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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