L’ultimo libro di Geraldina Colotti ci parla di quelle riforme che solo una rivoluzione può davvero attuare e difendere.
Domenica 20 maggio in Venezuela si vota per eleggere il Presidente. A contendere il Palacio de Miraflores a Nicolás Maduro, candidato del Gran Polo Patriótico, coalizione formata da socialisti, comunisti, tupamaros e altre forze di sinistra, non ci sarà la Mud, la mesa de unidad democratica, il foro che riunisce l’opposizione più mediatizzata, liberista e filoamericana, che ha deciso di boicottare le elezioni pur essendo arrivata ad un soffio dalla presidenza 5 anni fa. Un’assenza figlia della debolezza di fronte alla rivoluzione bolivariana ma parte di una strategia internazionale volta a sbarazzarsi dell’ultima grande anomalia sudamericana. Una partita i cui mass-media giocano un ruolo fondamentale e per questo ci viene più che utile l’ultima fatica di Geraldina Colotti, giornalista rivoluzionaria che in Venezuela è oramai di casa e che ha appena dato alle stampe in Italia Dopo Chávez. Come nascono le bandiere (ed. Jaca Book, 2018, pp, 226).
Da quando la rivoluzione nazional-democratica bolivariana si è ufficialmente imposta con le elezioni del 6 dicembre 1998, molta acqua è passata sotto i ponti, tanto che oggi l’autrice parla del Venezuela come di un laboratorio in via di transizione verso il socialismo. Un laboratorio, dunque, che pur rispettando la proprietà privata dei mezzi di produzione e le libertà borghesi – anzi estendendole anche a chi ne era ufficialmente privato, come gli afrodiscendenti e gli “indigeni” – ai padroni, agli escualidos, fa comunque una gran paura. Chávez è morto di cancro nel 2013 a soli 59 anni e la restaurazione neoliberista ha colpito, uno dopo l’altro, quasi tutti i paesi latinoamericani che avevano iniziato, seppur in modo molto timido e diverso, ad applicare alcune politiche sociali e redistributive e trattavano di svincolarsi dal giogo degli Stati Uniti.
Negli Usa la retorica sansepolcrista di Trump si è subito concretizzata nelle ennesime, pesantissime, sanzioni, a cui sono seguite quelle europee, col Mercosur, l’unione commerciale subcontinentale, che ha deciso di sospendere la partecipazione del Venezuela e l’Osa, l’organizzazione degli stati americani, che, forse, nelle prossime settimane, farà lo stesso. Il tutto condito dalla diminuzione del prezzo del petrolio, che passando dagli oltre 100 dollari a barile dell’autunno 2014 a circa 30 dell’estate 2015 (attualmente è tornato sui 70 US$ ma il petrolio venezuelano si sta de-dollarizzando) ha fatto perdere i miliardi necessari al finanziamento delle politiche sociali, di cooperazione internazionale e di trasformazione economico-sociale del paese.
L’opposizione di destra, dal canto suo, incapace di vincere le elezioni pur disponendo del controllo di tutti i grandi mass-media locali e dell’appoggio di quelli internazionali (e dei relativi governi), dopo il tentato colpo di stato (2002) sceglie la guerriglia civile (2014 e 2017) con assalti a ministeri, centri di assistenza sociale, ambulatori, scuole, asili, spacci statali e provocando oltre un centinaio di morti e innumerevoli feriti. E anche quando conquista la maggioranza dei seggi in parlamento (2015), non trova niente di meglio che invocare nuove sanzioni e l’intervento militare degli Usa.
A chiudere il cerchio la crisi economica che attanaglia il mondo e non risparmia il paese, aggravata da serrate e boicottaggi strumentali alla lotta politica. Una crisi globale di sovrapproduzione e di riduzione dei margini di profitto – con disoccupazione, disuguaglianze, fallimenti, povertà e austerità quali inevitabili conseguenze – che però in Venezuela si presenta nella forma di lunghe code per acquistare i prodotti sussidiati, scarsità dei beni sugli scaffali dei supermercati, mercato nero, iper-inflazione.
Una forma, dunque, che riflette il dualismo di potere tra governo rivoluzionario e parlamento reazionario e la contraddizione tra politiche riformiste – nazionalizzazione dell’industria petrolifera, l’enorme spesa sociale, le politiche redistributive, di controllo dei capitali, di inclusione sociale, gli aumenti salariali diretti, indiretti e differiti, la pensione a 55 anni per le donne e a 60 per gli uomini, scuola e sanità gratuite per tutti – ed il persistere di rapporti sociali autoritari (la proprietà privata) nelle relazioni economiche internazionali e nelle grandi catene commerciali e produttive, i cui padroni non sono intenzionati a sobbarcarsi i costi di uno sviluppo che sappia far uscire il paese dall’estrattivismo ed al contempo non sia più votato all’accumulazione del profitto (meglio se in qualche paradiso fiscale).
Insomma, ce ne sarebbe abbastanza perché il popolo, libero di votare e di farsi abbindolare, per altro armato proprio dal chavismo, decida di svoltare pagina o che i militari rovescino l’ordine costituito. Eppure questo non avviene e dal libro di Geraldina Colotti si capisce bene il perché. Anzi, l’unione civico-militare, la rivoluzione marxista, umanista, femminista e cristiana iniziata da Chávez ascolta le critiche e rilancia, facendo eleggere un’Assemblea nazionale costituente col compito di “raggiungere la pace e ripristinare l’ordine costituito” (Isaías Rodríguez, costituzionalista e ambasciatore in Italia p. 146). Anzi, continua l’ex procuratore generale, Chavista fin dalla prima ora: “la Costituente rappresenta un serio rischio per la continuità del progetto socialista nel paese. Per questo è tutt’altro che un autogolpe. Tocca ai cittadini decidere se abbiamo scelto il miglior cammino per sostenere i diritti sociali per gli esclusi e per la maggioranza. Con questa proposta del presidente, la posta in gioco è totale: tutto o niente” (p. 147).
Una resistenza ed un rilancio possibile sul piano sovrastrutturale perché fondato sulla direttrice marxista che Maduro vuole dare all’evoluzione della struttura economico-sociale venezuelana ancora capitalista e troppo dipendente dal petrolio. Una grande scommessa necessaria per non cedere inevitabilmente terreno di fronte a rapporti di forza internazionali più che sfavorevoli. Mentre, una dopo l’altra, le politiche redistributive promosse in Paraguay, Uruguay, Ecuador, Argentina, Brasile, e Honduras vengono cancellate senza troppi complimenti, mentre lo scoppio della grande crisi economica investe come uno tzunami quel che resta dei diritti dei lavoratori nella vecchia europa e negli Usa senza incontrare una resistenza degna di chi è riuscito a imporli, in Venezuela le fabbriche fallite vengono recuperate e gestite dai collettivi operai, nascono e si rafforzano nuove forme di organizzazione della produzione e della vita associativa, le comunas, consigli formati da quel popolo che si riconosce nel territorio che occupa e nelle attività produttive che gli servono da sostentamento e sui quali esercita il potere sovrano e di partecipazione protagónica in coerenza con il regime di produzione contemplato nel piano di sviluppo economico e sociale della nazione, il principale strumento di pianificazione del paese.
Certo, ci sono problemi e contraddizioni. Di questo bisogna essere consapevoli, come lo sono i dirigenti venezuelani. Ciononostante, il Venezuela ci conferma che le uniche riforme che resistono anche durante le crisi sono quelle incanalate dentro un processo di progressiva rivoluzione dei rapporti sociali, indispensabile, se si vuol dare la stura ad un più ampio e coerente sviluppo delle forze produttive in grado di sostenere quei diritti e quella redistribuzione la cui parabola sarebbe altrimenti determinata dalle pretese padronali che in tempi di crisi ne ottengono l’inevitabile sacrificio sull’altare delle compatibilità economiche. La partita, che in Italia non è neanche calendarizzata, in Venezuela è ancora apertissima ma il popolo in questi anni ha dimostrato di sapere che le riforme sono una cosa troppo seria per lasciarle ai riformisti.