“4 comunisti, perché hanno poca voglia di lavorare, guadagnano al giorno £ 8 e 4 fascisti guadagnano £ 15 al giorno. Chi guadagna di più?”

Si tratta di un facile esercizio aritmetico per vedere se i bambini di epoca fascista sapevano fare le moltiplicazioni. Ce ne sono tanti di questo genere che servivano a costruire l’ideologia del regime, a farla vivere nella mente dei bambini.

“Pensando al tuo futuro, quanto pensi che siano vere queste frasi?
A. Raggiungerò il titolo di studio che voglio
B. Avrò sempre abbastanza soldi per vivere
C. Nella vita riuscirò a fare ciò che desidero
D. Riuscirò a comprare le cose che voglio
E. Troverò un buon lavoro”

Questa invece è la domanda numero dieci del questionario Invalsi per la rilevazione delle informazioni sugli studenti, a cui i bambini delle classi quinte della scuola primaria hanno dovuto rispondere in questi giorni. I bambini dovevano mettere per ogni frase una crocetta su uno dei sei quadrati: per niente; pochissimo; poco; abbastanza; molto; totalmente. Anche in questo caso il bambino diventa il destinatario di un messaggio, ben chiaro: esisti se hai i soldi. E’ il pensiero unico del capitalismo trasferito in un test per la scuola elementare.
Sono passati più di ottant’anni tra questi due testi e devo riconoscere che una differenza c’è. E purtroppo quello attuale è perfino peggiore di quello di epoca fascista. Perché in questo il messaggio è esplicito, quell’esercizio era stato scritto da un anonimo redattore di un sussidiario per le scuole elementari con un obiettivo preciso e seguendo chiare direttive. Temo invece che l’anonimo autore del test Invalsi non si sia neppure reso conto di quello che stava scrivendo. Per verificare il grado di maturità del bambino – perché immagino sia questo lo scopo di questa domanda – chi l’ha scritta ha usato l’unico metro di giudizio che egli conosce e che evidentemente considera condiviso da tutti. E che è condiviso da tutti. Ossia il denaro e la capacità di comprare. Tra l’altro è anche significativo l’ordine con cui le frasi sono presentate: il lavoro viene messo alla fine e perde la relazione con i soldi. Il punto focale è “comprare le cose che voglio”.
Quando io ero un ragazzino mi dicevano che dovevo studiare e che se avessi studiato avrei trovato un lavoro. I miei genitori, che non avevano studiato e che comunque avevano un lavoro migliore dei loro padri e delle loro madri, ne erano convinti e in qualche modo credo per quelli della mia generazione questo sia stato ancora vero. Probabilmente siamo stati gli ultimi. Adesso, se avessi un figlio, io avrei la certezza che il suo lavoro non dipenderebbe da quanto e come ha studiato. E naturalmente per i miei genitori era chiara la relazione tra lavoro migliore e salario maggiore. Anche in questo caso io non lo potrei più credere per un mio ipotetico figlio. In sostanza per quelli della mia generazione l’idea era: più studi, migliore sarà il tuo lavoro, e quindi migliore sarà il tuo futuro.
Io alla fine della quinta elementare non avrei saputo rispondere a queste cinque domande, e forse neppure alla fine delle medie. Alla fine del liceo avrei saputo rispondere con una certa sicurezza sul fatto che sarei riuscito a laurearmi – che era il mio obiettivo di allora – e probabilmente avrei risposto positivamente anche all’ultima domanda, sull’onda di un giovanile entusiasmo. Solo adesso che ho quasi cinquant’anni credo di poter rispondere in maniera positiva alle domande B. e C. Mentre trovo fuorviante la quarta: perché l’importante è riuscire a comprare le cose di cui io e la mia famiglia abbiamo bisogno, non ciò che voglio.
Spero che i bambini abbiano messo le crocette in maniera anarchica e casuale in quei trenta quadrati, ma ho paura di un testo del genere e credo abbia contribuito, insieme a quello che vedono in televisione, a quello che ascoltano in casa dalle loro famiglie, a tutto quello che insegniamo loro, più o meno volontariamente, a farli diventare meri consumatori. Quel testo, nella sua burocratica asetticità, ci dice che a noi non importa se i nostri figli e le nostre figlie saranno felici o peggio che crediamo che saranno felici solo con in mano l’ultimo modello di smartphone.

 

 

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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