Donald Trump è di nuovo “presidenziale”, e ha sparato circa 150 milioni di dollari di missili cruise sulla Siria, realizzando Dio solo sa cosa.
Nel frattempo gli Stati Uniti, con la loro generosità umanitaria, hanno finora permesso a 11 rifugiati siriani di entrare nel paese quest’anno, sugli oltre 5 milioni di rifugiati che la guerra civile ha provocato.
La follia di queste priorità è troppa per capire, quindi i media mainstream — la coscienza superficiale della nazione — non fanno alcun tentativo. La necessità di un’azione militare, per una giustificazione o per un’altra (“non vogliamo che la pistola fumante sia un fungo atomico”), viene messa in discussione solo dopo il fatto, ovvero molto tempo dopo che le conseguenze dell’azione hanno spinto il Pianeta Terra un po’ più verso l’Inferno.
Il governo di Bashar al-Assad è stato accusato di aver bombardato la città di Douma con gas tossico all’inizio di aprile, uccidendo più di 40 persone. Assad ha negato che fosse così. Gli ispettori internazionali dovevano entrare e svolgere un’indagine ma, prima che potessero farlo, l’amministrazione Trump, insieme a Francia e Gran Bretagna, “ha punito” Assad e i suoi alleati russi colpendo la Siria con 105 missili cruise, dopo i quali Trump ha dichiarato “missione compiuta”, citando George W. Bush.
Non ho visto alcuno sforzo giornalistico serio per valutare il numero di morti inflitti dai missili cruise, solo reiterazioni delle conferenze stampa del Dipartimento della Difesa: “Nessun pilota americano è stato ucciso, secondo il Pentagono, e fino ad ora gli USA non sanno se ci sono state vittime civili”.
E non ci sarà mai alcuno sforzo giornalistico, perché non importa! Non quando siamo noi a farlo.
Una fredda indifferenza si manifesta intorno alle azioni militari statunitensi. Quando lo facciamo, il focus successivo è sulla strategia, non sull’umanità. Ciò che non viene mai messo discussione è la necessità di un’azione militare.
“Ma questa è l’America del XXI secolo”, scrive Will Bunch, “guidata da un presidente con potere autocratico incontrastato in grado di lanciare attacchi militari in nome di una nazione che rifugge la diplomazia e le strategie pazienti, in favore della gratificazione immediata del lancio dei Tomahawk.”
Ed ecco una frase incredibilmente inquietante di un articolo in The Guardian: “Le ultime incursioni hanno sottolineato come, nonostante l’enorme costo umanitario della guerra in Siria, il paese sia diventato un terreno di prova per alcuni dei sistemi di armi più avanzati del mondo, schierati sia dagli Stati Uniti, che dalla Russia.”
Gli esperti militari (e corporativisti) dettano legge. Lo hanno sempre fatto, almeno dalla fine della Guerra Giusta. Hanno fatto pressione su ogni presidente degli Stati Uniti per spingerlo verso l’opzione militare e, di solito, hanno ottenuto il loro risultato. Non ha importanza che abbiano spinto nel corso degli anni l’uso di armi nucleari, o che abbiano perso ogni guerra combattuta dal 1945, infliggendo o almeno espandendo il caos e la sofferenza globali nel processo.
Un presidente che apparentemente era in grado di resistere ai generali era John F. Kennedy. Lo storico presidenzialista Robert Dallek, che contribuì ad un numero del 2013 di The Atlantic su Kennedy, descrisse la situazione alla Casa Bianca dopo il fiasco della Baia dei Porci nel 1961:
“In seguito, Kennedy si accusò di ingenuità per aver avuto fiducia nel giudizio militare che l’operazione cubana fosse ben pensata e capace di successo. «Quei figli di puttana con tutte le medaglie sul petto si sono seduti lì a fare un cenno col capo, dicendo che avrebbe funzionato», disse Kennedy dei capi. Disse ripetutamente a sua moglie: «Oh mi Dio, che gruppo di consiglieri abbiamo ereditato!» Kennedy concluse che era troppo poco istruito sui modi segreti del Pentagono, e che era stato eccessivamente deferente nei confronti della CIA e dei capi militari. In seguito disse ad Arthur Schlesinger di aver commesso l’errore di pensare che «i militari e le persone del controspionaggio abbiano alcune abilità segrete non disponibili ai comuni mortali.» La sua lezione: non contare mai sugli esperti. O almeno: essere scettico nei confronti dei consigli degli esperti interni, e consultare gli estranei che potrebbero avere una visione più distaccata della politica in questione.”
Un anno e mezzo dopo fu in grado di ignorare l’insistenza dell’esercito sul bombardamento di Cuba durante la crisi missilistica. È stato l’ultimo presidente a resistere alle pressioni che spingono a fare la guerra?
La maggior parte delle volte la diplomazia è uno slogan lento e frustrante. Creare la pace non è spettacolare, al contrario le armi ad alta tecnologia producono istantaneamente fuoco e fiamme. Forse producono anche cadaveri, ma è facile ignorarli a distanza. Siamo divenuti una nazione di spettatori. Guardiamo le nostre guerre in TV, o almeno dei segmenti di quelle guerre, e ascoltiamo le astrazioni esplicative degli esperti. Assad deve essere punito: missione compiuta.
Ne frattempo la realtà della guerra civile siriana continua. Mezzo milione di persone è morto. Quali sono gli interessi degli Stati Uniti qui? Stanno per terminare la carneficina e assistere i milioni di persone che sono stati sfollati dalle loro case e dalle loro vite? Devono esercitare un’influenza sulle fazioni ribelli sostenute dagli Stati Uniti per iniziare un negoziato di pace con Assad?
Steven Kinzer, scrivendo sul Boston Globe, crede che sia diverso: «Dal punto di vista di Washington la pace in Siria è lo scenario dell’orrore. Pace significherebbe ciò che gli Stati Uniti considerano una “vittoria” per i propri nemici: la Russia, l’Iran e il governo di Assad. Siamo determinati ad impedirlo, a prescindere dal costo umano.»
Più di cinquant’anni fa, quando JFK si è schierato contro i propri generali, non vi era una “prospettiva di Washington” unificata. Kennedy, che come scrisse Dallek «diffidava delle istituzioni militari americane quasi quanto i sovietici», era riuscito a distruggere il consenso militare-industriale e dare trazione politica alla pace.
E se fosse durato?
http://sakeritalia.it/america-del-nord/giocando-alla-guerra-in-siria/