Il 2 luglio 1816, al largo delle coste dell’attuale Mauritania, affondò la fregata francese Méduse; il responsabile di quel disastro fu il comandante Hughes Duroy de Chaumareys che, oltre a non navigare da oltre venticinque anni, non conosceva quelle acque; a causa della sua impreparazione e dei suoi errori la nave si incagliò sul fondale sabbioso e si squarciò. Duecentocinquanta persone si salvarono grazie alle scialuppe, ma i centocinquanta uomini della ciurma furono imbarcati su una zattera di fortuna, lunga 20 metri e larga 7. In un primo momento il capitano decise di trascinare la zattera, ma, visto che era troppo pesante, le cima che la legavano alle scialuppe furono lasciate andare e quegli uomini furono abbandonati al loro destino. Venti morirono già la prima notte. In quei tragici giorni gli uomini sulla zattera diedero il peggio di sé: gli ammutinamenti furono frequenti e causarono sempre dei morti, le risse erano continue, i tentativi di accaparrarsi le magre derrate che erano riusciti a portare con loro finirono per distruggere quel poco di cui avrebbero potuto nutrirsi, il nono giorno ci furono i primi casi di cannibalismo sui cadaveri e dopo qualche giorno i “sani” decisero che i “malati” sarebbero dovuti morire per permettere a loro di salvarsi. Il 17 luglio, quando quasi tutti erano ormai morti di fame o si erano gettati in mare per la disperazione, i superstiti vennero salvati dal battello Argus. Cinque morirono la notte seguente. Solo quindici uomini si salvarono e tornarono in Francia.
Meno di due anni dopo il giovane pittore Théodore Géricault dipinse un grande olio su tela intitolato La zattera della Medusa. Quell’opera, che oggi possiamo vedere al Louvre, è considerata il capolavoro di Géricault e segna l’inizio del romanticismo nella pittura francese. Il pittore avrebbe potuto scegliere tanti momenti, anche intensamente drammatici: il momento in cui le cime vennero gettate in acqua, i primi combattimenti sulla zattera, la decisione di gettare quelli che non ce l’avrebbero fatta e le cui carni non potevano essere mangiate. Oppure il momento del salvataggio. Descrive invece il momento in cui i pochi rimasti vedono in fondo all’orizzonte gli alberi di una nave. Nei diari di quelli che torneranno si racconta che quell’immagine lontana a un certo punto scomparve e quindi l’illusione che si era diffusa poco prima, svanì in maniera drammatica. Cosa dipinge Géricault? Il momento in cui gli uomini credono che la nave si stia avvicinando e in cui le loro mani sventolano dei luridi stracci come segnalazione? o quello successivo, in cui la vedono allontanarsi e quel movimento delle braccia è ormai inutile? Non lo sappiamo e ciascuno di noi può leggere in un modo diverso quell’immagine. Con angoscia o con speranza.
Mentre scrivo 629 persone sono ferme in una barca in mezzo al Mediterraneo, quella nave non corre il rischio di affondare come la zattera dipinta da Géricault, nessuno è ancora morto, anche se ogni ora le condizioni si fanno sempre più precarie, anche perché tra quei 629 tanti sono bambini, molte sono le donne che tra poco partoriranno, moltissimi sono deboli, stremati da un viaggio che è cominciato chissà dove e chissà quando. Non ci sarà un pittore che trasformerà in un capolavoro il dramma dell’Aquarius. Ma adesso sappiamo che quelle donne e quegli uomini sono lì e che ogni movimento può scatenare la loro gioia come ogni fermata può abbatterli e prostrarli. Quella nave deve raggiungere un porto. Chi usa quelle 629 persone per la propria battaglia, quand’anche fosse legittima, quand’anche fosse fondata – e in questo momento stanno sbagliando sia il governo italiano sia quelli degli altri paesi che negano la possibilità di attracco – è colpevole quanto chi ha sfruttato quelle donne e quegli uomini organizzando il viaggio che li ha portati fino a lì.
L’ho scritto altre volte, la questione non è decidere chi adesso aprirà per primo i propri porti, o lo farà domani, o dopodomani, perché domani ci sarà un’altra nave e dopodomani un’altra ancora. La questione è decidere un diverso modello di sviluppo. Adesso, sia come sia, quella zattera deve arrivare a terra. Ma una volta che quelle persone sono sbarcate non possiamo dimenticare i loro volti, dobbiamo fissarli come fissiamo il viso dolente dell’uomo nel quadro di Géricault, l’unico che non guarda la nave in lontananza e invece guarda noi, e quel suo sguardo ci dice che noi siamo con loro su quella zattera, ci dice che non possiamo illuderci di essere in salvo. E non sappiamo se quella nave là in fondo si sta avvicinando o sta sparendo per sempre.
se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…