Un’analisi sul femminismo che, radicalizzando la critica marxiana, svela l’esistenza di un lavoro che è la base di tutte le altre forme di lavoro
di Aurora Turmeda*
Fonte: SinPermiso, traduzione di Marina Zenobio
I
La funzione essenziale dell’istituzione familiare nella riproduzione dell’ordine sociale è un fatto evidente per il pensiero repubblicano classico, sia di carattere democratico che oligarchico.
Se nel quinto secolo prima della nostra epoca Aspasia, la repubblicana democratica attica, rivendicava l’uguaglianza e la fratellanza tra uomini e donne, così come il riconoscimento dell’areté delle donne, a loro volta i repubblicani oligarchici Platone e Aristotele condannavano la democrazia plebea attica proprio perché vedevano in essa una connessione di causa con la sovversione dell’autorità maritale in seno alla famiglia. Ed è che il programma socio-politico del repubblicanesimo democratico può essere riassunto nella soppressione del triplice dispotismo (a) monarchia, nel campo della politica; (b) datore di lavoro, in campo economico e commerciale, (c) patriarcale, all’interno della famiglia (ed è molto eloquente che il significato etimologico della parola famiglia sia un “gruppo di servi e schiavi di una casa”).
Quindi il programma repubblicano democratico ha come orizzonte la piena libertà dell’insieme della popolazione, soprattutto quella soggetta a dominazione da parte di altri, libertà che, nella concezione repubblicana, implica sia il riconoscimento come soggetto dei diritti di cittadini sia la disposizione di risorse per garantire la propria esistenza materiale, senza dover entrare in relazione di dipendenza economica rispetto ad altri. In questo senso, la concezione “moderna” di una libertà puramente giuridico-politica, scissa dalle capacità economica e compatibile con relazioni di dipendenza in ambito economico, risulta una finzione, ridicola da qualsiasi prospettiva filosofica repubblicana (non invano Aristotele qualificava il lavoro salariato come “schiavitù part-time”). Ed è così che una delle conseguenze dell’imposizione del liberismo, come filosofia politica dominante del diciannovesimo secolo nei paesi ricchi, è stata l’istituzione di schemi di pensiero meramente individualistici, che ignorano il contesto storico, istituzionale, di classe e di genere in cui agiscono gli esseri umani. L’ignoranza del ruolo dei fatti collettivi nelle analisi liberali ha significato anche l’invisibilità dell’istituzione familiare e l’istituzione di una miriade di schemi puramente ideologici, considerati neutrali non solo nelle scienze sociali ma anche nella legislazione sociale e del lavoro.
II
Uno dei molteplici meriti del femminismo consiste nell’aver reintrodotto la famiglia come istituzione sine qua non nella riflessione teorica sulla società e di aver demolito gran parte di questi pseudoconcetti, raggiungendo terreni inesplorati, compreso quello della critica marxista. Probabilmente la critica più rilevante è quella della concezione liberale del lavoro, inclusa nel sistema giuridico di tutti i paesi capitalisti. In effetti il femminismo, in una rottura politica e epistemologica che smantella le ipotesi di tutte le teorie economiche convenzionali e complete, approfondisce e radicalizza la critica marxiana, svela l’esistenza di un lavoro che è la base di “tutte le altre forme di lavoro, poiché è il lavoro che produce la forza lavoro”, proprio come sottolinea la filosofa e attivista Silvia Federici: il lavoro riproduttivo, denominato a partire dalla sua relazione con il cosiddetto lavoro produttivo.
La dicotomia tra questi due tipi di lavoro è messa in discussione dall’odierno femminismo secondo cui “il partorire, la cura, tutto ciò non è riproduzione” ma, molto semplicemente, “produzione” (Jule Goikoetxea). La spaccatura tra i due tipi di lavoro e, cosa ancora peggiore, la finzione di negare la natura di lavoro al lavoro riproduttivo – che arriva ad assurde intollerabilità come quella per cui questi stessi compiti sono considerati “lavoro” non appena effettuati fuori dalla propria casa -, coincide con una divisione del lavoro in base al genere, pertanto i compiti riproduttivi intrafamiliari, come quelli che si esercitano (remunerati) fuori casa, ricadono sulle donne.
I primi, come sostengono Nicole Cox e Silvia Federici, implicano il “servire fisicamente, emotivazione e sessualmente il vincitore del salario, preparandolo giorno dopo giorno al suo lavoro salariato”, così come “curare i nostri figli – lavoratori del futuro – da quando nascono, passando per gli anni della scuola e garantendo che anch’essi agiscano come da essi ci si aspetta sotto il capitalismo”.
Così, “dietro ogni fabbrica, scuola, officina o miniera c’è il lavoro occulto di milioni di donne che hanno consumato tutta la loro vita e capacità lavorative a produrre la forza lavoro che in esse lavora”. “La famiglia” in somma, è “l’istituzionalizzazione del nostro lavoro non salariato”, la cui prestazione gratuita è una condizione preliminare per il funzionamento dell’economia capitalista.
Per quanto riguarda il lavoro “riproduttivo” svolto fuori casa, si tratta di attività abitualmente non considerate lavoro, generalmente disprezzate e storicamente imposte alle donne (imposizione legittimata da falsi e ingannevoli pseudonaturalisti), che si trovano ai livelli più bassi del lavoro e della gerarchia retributiva. Secondo Cox e Federici “non è un caso che [alle donne] tocchino sempre i lavori malpagati o che appena entriamo in un settore maschile i salari si abbassano”, dato che i datori di lavoro “sanno che siamo abituate a lavorare in cambio di nulla e sanno ancor meglio che siamo così disperate nella ricerca di guadagnare qualcosa che possono prenderci a costi bassissimi”. Inoltre, “nella misura in cui donna si è trasformato in sinonimo di “casalinga”, portiamo questa identità, come anche le “abilità casalinghe” acquisite fin da quando nasciamo”.
Strettamente legata all’invisibilità del lavoro riproduttivo è la falsa dicotomia tra “pubblico” e “privato”, secondo cui, dal punto di vista economico, pubblico equivarrebbe all’ ‘ambito di lavoro extra-domestico’, mentre il privato sarebbe, chiaramente, il “non lavoro”. Oltre ad ignorare il lavoro riproduttivo, questo dualismo comprende anche un altro errore concettuale, come sostengono Maria Julia Bertomeu e Antoni Domènech: dare la definizione di “pubbliche” a istituzioni come le imprese del capitale privato. Del resto i filosofi liberali possono declamare sui diritti individuali e sull’inviolabilità dello spazio privato nelle società capitaliste in regime di democrazia parlamentare, però il fatto che l’esercizio dei diritti riproduttivi rientrino nel Codice Penale di molti di questi stati rivela che, in realtà, la sessualità femminile è considerata come una questione di rilevanza pubblica, cosa che si può spiegare dalla prospettiva della teoria economia femminista.
Infatti, nel quadro della rottura epistemologica posta dalla teoria femminista, “il riconoscere che la forza lavoro non è niente di naturale bensì deve riprodursi, significa riconoscere che tutta la vita si trasforma in forza riproduttiva e tutte le relazioni familiari e sessuali si convertono in relazioni di riproduzione”, cosa che spiega l’ossessione degli stati e delle istituzioni religiose rispetto ai corpi delle donne in quanto “macchine per la riproduzione di forza lavoro”. E, conclude Federici, “fintanto che una società sfrutti il lavoro umano, fintanto che si basi sullo sfruttamento della manodopera, ci sarà discriminazione sessuale, perché il dominio sul corpo delle donne, il dominio del processo di riproduzione è fondamentale per ogni forma di sfruttamento”.
III
Il femminismo, quindi, contribuisce al repubblicanesimo democratico con strumenti teorici di grande potenzialità. In questo contesto risultano del tutto pertinenti le voci che, nel quadro dei processi di costruzione statale repubblicana, segnalano l’importanza di realizzare un disegno istituzionale della nuova repubblica da una prospettiva femminista. Vale la pena menzionare alcuni dei criteri e delle misure che in tal senso sono state esposte (seguiamo, in generale, il pioneristico contributo della militante della CUP Maria Colera, Sobre la construcció d’un estat feminista [“Sulla costruzione di uno stato femminista”], Perspectives, 2015, di cui riportiamo testualmente alcuni frammenti):
- Riconoscimento del movimento femminista come agente sociale nella progettazione delle “politiche che riguardano le donne, questo per tutte le politiche” e con diritto di veto. Se si legifera e si governa come se la “discriminazione strutturale” che colpisce le donne “non è reale, le leggi e le politiche che da esse derivano non farà che perpetuarla”.
- Quote obbligatorie nelle istituzioni, affinché le decisioni riguardanti la totalità della cittadinanza considerino anche gli interessi delle donne, ed anche per combattere “altre quote, non riconosciute però egemoniche e standardizzate, che fanno sì che gli uomini occupino la maggior parte dei posti di decisione e rappresentazione”.
- Ridefinizione giuridica del concetto di lavoro, in modo che includa anche il lavoro “riproduttivo” intrafamiliare e che sia retribuito, sia in forma diretta (mediante salario o prestazioni specifiche), sia con un reddito di base universale che favorisca chiaramente le persone che realizzano lavoro non retribuiti.
- Elevazione del criterio di protezione della vita delle persone e di soddisfazione delle loro necessità vitali alla categoria di asse centrale delle politiche pubbliche, soprattutto quella economica, e demercificazione dei servizi di prestazione di diritti sociali. In questo ambito è soprattutto rilevante la “collettivizzazione del lavoro di cura”, in modo che questi servizi siano offerti pubblicamente e non debbano ricadere necessariamente sulle donne di quella data famiglia.
- Protezione della libertà sessuale e riproduttiva, includendo la piena legalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza, gratuita e come prestazione inserito nel Servizio sanitario nazionale.
- Despatriarcalizzazione culturale della società, con la reinterpretazione di “tutta la produzione culturale” da un punto di vista di genere, e lotta contro i meccanismi attraverso cui si diffonde, inocula e riproduce l’ideologia patriarcale, che sta alla base della violenza contro le donne.
- Modello educativo che promuova l’empowerment delle donne e l’autodifesa femminista che “dovranno fornisci gli strumenti di analisi per individuare e combattere le espressioni del sistema patriarcale in ogni ambito della nostra esistenza”.
https://www.popoffquotidiano.it/2018/06/16/repubblicanesimo-e-femminismo/