Dinanzi ai successi del populismo, ci si interroga se per tornare a vincere ci sia bisogno del cosiddetto populismo di sinistra.
Come è noto, l’attuale governo italiano si autodefinisce, per bocca del suo stesso presidente e garante del contratto fra le due anime che lo compongono, populista. Quello di Salvini è esplicitamente un populismo di destra, di stampo essenzialmente sciovinista, che contrappone il popolo italiano – occultando così le contraddizioni al suo interno fra le diverse classi sociali – agli stranieri immigrati. In tal modo nasconde la contraddizione oggettiva fra l’interesse dei capitalisti a sfruttare la forza-lavoro, per estrarre il massimo plus-valore, e l’esigenza dei salariati di minimizzare tale sfruttamento.
Ciò favorisce evidentemente la classe dominante, che porta avanti anche inconsapevolmente la lotta di classe dall’alto, semplicemente facendo funzionare senza opposizioni significative il modo di produzione capitalista e le sovrastrutture liberali, che hanno proprio questo fine intrinseco. Anche se tale fondamento, in quanto tale, non appare, anzi, è occultato dal “naturale” carattere di feticcio che assume la merce, il denaro e lo stesso capitale, che non appaiono come prodotti del lavoro salariato, ma degli strumenti per il suo dominio. Inoltre il populismo nazionalista di destra tende a offrire al malessere della maggioranza dei ceti sociali subalterni – che subiscono, senza nemmeno avvedersene, il dominio della classe dominante e la sua lotta di classe condotta in modo sempre più unilaterale dall’alto – un capro espiatorio molto più facile, almeno apparentemente, da combattere, ovvero gli stranieri che aspirano a prendere il loro posto di lavoro, la loro porzione di “Stato sociale” e che, in ogni caso, con la loro semplice presenza rendono il proletario e il sottoproletario italiano più facilmente ricattabili.
Tuttavia, mentre il ricatto portato avanti dai capitalisti appare come “naturale”, in quanto conforme alla legge “oggettiva” della domanda e dell’offerta, la concorrenza dello straniero è considerata come sleale, in quanto pretenderebbe di mettere in discussione l’essere padrone a casa propria dell’italiano. Così alla componente apertamente di destra del governo basta sostenere dall’alto, come nuova classe dirigente, la lotta fra poveri, per conquistare consensi non solo fra le classi dominanti, ma fra le stesse classi subalterne.
Tanto più che, tutti i grandi mezzi di comunicazione e più in generale gli apparati della società civile, saldamente egemonizzati dai liberali, non fanno altro che rafforzare il feticismo che fa apparire gli attuali rapporti di produzione e di proprietà come naturali e, così, facendo si naturalizza la stessa lotta di classe dall’alto che da essi si sviluppa. Al contrario tutti gli apparati della società civile volti a rafforzare l’egemonia della classe dominante, dal punto di vista economico, ossia a farla dominare con il consenso dei subalterni – senza dover ricorrere, se non in casi particolari al monopolio della violenza legale – tendono a far apparire come del tutto innaturale, questa vera e propria invasione di “incivili”, che vengono fatti apparire come “naturalmente” portati al crimine. Ecco così che alla difficile, faticosa e pericolosa lotta di classe dal basso – che si trova a scontrarsi con gli apparati dello Stato, della società civile e dei proprietari dei mezzi di produzione e di sussistenza, che in quanto tali hanno sempre il coltello dalla parte del manico – la molto più semplice e poco pericolosa guerra fra poveri.
D’altra parte la forza (dal punto di vista elettorale) maggioritaria al governo – anche se tale vantaggio tende a ridursi sempre di più, visto che gli strumenti del consenso in mano alla classe dominante danno sempre più spazio e visibilità alla componente più destra, che sta così rapidamente recuperando anche in termini elettorali il proprio svantaggio – è anch’essa esplicitamente populista. Tale identità, che ha portato le due forze a unirsi nel governo del paese, sottende una differenza: infatti il populismo dei grillini quando si trovano all’opposizione si presenta con un indirizzo di centro-sinistra, in quanto tende a contrapporre chi sta in basso, ovvero tutto il popolo, alle élites della classe dirigente, ovvero il ceto politico.
Tale impostazione, apparentemente antisistema, è in realtà, dal punto di vista ideologico, un prodotto della classe dominante economica che, attraverso i propri intellettuali organici, a partire dal “Corriere della sera”, ha lanciato una vera e propria crociata contro la casta politica, accusata indiscriminatamente di corruzione e additata come il vero ceto privilegiato. In entrambi i casi, tali attacchi, erano volti a ridurre i faux frais (falsi, in quanto superflui, costi) della classe dirigente politica, visto che ormai non è più presente una reale opposizione politica in grado di mettere in discussione i rapporti di proprietà e di produzione. In tal modo i grillini hanno potuto sfruttare l’ideologia dominante, e presentarsi come una reale opposizione dal basso al ceto dei privilegiati, anche perché la precedente opposizione si è riconvertita, pur di occupare il potere politico, a massima sostenitrice degli interessi dei reali privilegi.
In tal modo, però, una volta che ha iniziato a sostituirsi alla precedente classe dirigente diessina, dai comuni fino al governo nazionale, ha semplicemente offerto i propri servigi alla classe dominante, a un prezzo più basso, trattandosi per lo più di personale meno qualificato. Giunti a controllare fette sempre più ampie del potere politico, hanno progressivamente abbandonato gli aspetti di sinistra del proprio populismo – la contrapposizione fra il basso del popolo e l’alto del governo corrotto – essendo ora proprio loro la nuova classe dirigente. Il loro populismo è diventato un populismo di centro, doroteo, un vero e proprio ossimoro, da una parte inseguendo vanamente il populismo della destra, dall’altra portando avanti, in modo sempre meno credibile, la lotta contro la corruzione e gli sprechi della classe dirigente. Anche perché, mirando come la precedente classe dirigente unicamente al governo, da una parte si è dovuta sempre più sottomettere alle esigenze della reale classe dominante (dal punto di vista economico e sociale), dall’altra avendo abbandonato qualsiasi ideale, in nome della fine delle ideologie, anche il suo personale politico, come il precedente, finisce per pensare in primo luogo al proprio tornaconto.
Visto il successo dei populisti, al solito nell’opposizione ha cominciato a circolare la concezione che, se davvero si vuole uscire dal ruolo di testimonianza dell’opposizione e mirare realmente al controllo del potere politico, bisogna utilizzare gli strumenti che si sono dimostrati vincenti. Da qui le sempre più ricorrenti sirene che tentano la sinistra sempre più all’opposizione, ad abbracciare il populismo per recuperare il potere e la popolarità perdute. Da qui la proposta, che rischia di apparire sempre più seducente, dinanzi ai successi dei populisti non solo in Italia, ma anche in Europa e a livello internazionale, di sviluppare un populismo di sinistra. Anche perché dall’America latina, terra di elezione del populismo, tale prospettiva apparentemente vincente ha condizionato la stessa ex potenza coloniale spagnola per varcare infine i Pirenei. In altri termini, forze più o meno populiste di sinistra hanno avuto dei lusinghieri successi elettorali prima nei paesi dell’America latina e, più recentemente anche in Spagna e in Francia. Tale prospettiva, di poter riconquistare una parte del potere politico perduto, non poteva che incontrare consensi crescenti anche in Italia.
Dal punto di vista pratico i risultati, in Italia e forse anche a livello internazionale, non sono stati particolarmente felici. Certo, si potrebbe obiettare che una cosa è la teoria e altra la prassi, ovvero che il populismo di sinistra, in primo luogo in Italia, non ha avuto successo perché non è stato applicato correttamente. Ma, qui, sorge subito un primo problema, ossia che il populismo, come tutti i movimenti politici che hanno come base sociale il ceto medio, la piccola borghesia, come ad esempio i fascismi, tendono all’azionismo, ovvero a dare un valore assoluto ai risultati e un valore del tutto secondario alla teoria. Tanto che Guido Liguori, uno dei più importanti studiosi delle dottrine politiche in Italia, ha recentemente scritto: “non esiste, nella storia del pensiero politico, una teoria populista o un teorico del Populismo”.
Questo primato assoluto dell’azione, dei risultati concreti, rispetto agli ideali astratti, dovrebbe far suonare un primo campanello di allarme, non solo perché, come abbiamo visto, è un aspetto tipico dei fascismi, ma anche poiché tutte le volte che tale prospettiva si è affermata nel movimento operaio ha portato a un’affermazione del revisionismo. Quest’ultimo, partendo dalla prospettiva per cui il movimento è tutto, mentre il punto di arrivo è qualcosa di utopistico, ha sempre portato ad abbandonare l’originaria prospettiva rivoluzionaria, facendo prevalere il tentativo di affermarsi all’interno della società borghese. Anche perché la teoria, nella sua astrazione, entra necessariamente in contraddizione con l’esistente, mentre l’attitudine pragmatica favorisce i tatticismi, gli opportunismi e i trasformismi. Infine, rinunciando alla teoria, in nome del primato della prassi, si finisce per considerare come naturale l’ideologia dominante e, dunque, l’azione non può portare mai a mettere in discussione i fondamenti del sistema dominante, ma al massimo a riformarne taluni aspetti secondari.
Comunque, proprio perché predilige la prassi, un sostenitore del populismo non accetterà un confronto teorico dal punto di vista storico. Proviamo, quindi, a confrontarci direttamente con una questione di attualità, ovvero se è possibile un populismo di sinistra. Posta così la questione è di facile soluzione, dal momento che la categoria del possibile essendo quella più generica e astratta, non può che portarci alla conclusione che tutto è possibile. Tanto più che, mancando una teoria populista e persino un vero e proprio teorico del populismo, è evidente che anche tale concetto si presenta così vago e indeterminato da essere declinabile in ogni senso. Ma proprio per questo, essendo uno strumento fondamentalmente neutro per la conquista del potere politico, è evidente che si tratta di uno strumento molto più utile alla destra piuttosto che alla sinistra. È, infatti, la destra – che naturalizza l’attuale modo di produzione o ritiene che l’unica cosa che realmente conti è la volontà di potenza – a mirare al potere per il potere, mentre evidentemente la sinistra dovrebbe vedere nel potere uno strumento per conseguire un più elevato obiettivo, ovvero nei termini più generali la realizzazione di una società giusta e razionale. Inoltre mentre la destra aspira naturalmente a governare una società capitalista o imperialista, la sinistra – che invece mira a una società più giusta e razionale – dovrebbe puntare a rivoluzionare la società esistente, piuttosto che a preoccuparsi di garantirne la governance.
Ma anche qui il dialogo con il populista rischia di interrompersi, perché proprio la sua attitudine anti-teorica, anti-filosofica e antipolitica lo porta, generalmente, a considerare in termini puramente nominalistici, e, dunque, inessenziali la differenza fra destra e sinistra. Anzi, nei termini più diretti e pragmatici con cui si esprime, il populista considera superati o meramente ideologici gli aspetti che consentivano di separare in modo significativo la destra dalla sinistra.
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