In ogni momento della nostra giornata, che il nostro telefono o computer sia acceso o meno, siamo connessi. Il confine tra online e offline è sempre più labile, la distanza fra reale e virtuale sempre più breve. Ogni giorno scrolliamo la nostra bacheca Facebook o il feed Instagram, inviamo messaggi su Whatsapp, acquistiamo da Amazon, facciamo ricerche su Google, andiamo a informarci su qualcosa tramite Wikipedia. Internet, che lo si voglia o no, insomma, rappresenta una dimensione centrale della quotidianità di ognuno di noi. Ciononostante, è raro che ci si interroghi collettivamente su che cosa significhi tutto ciò: la discussione sul web e sul digitale viene spesso dipinta come di interesse esclusivo degli addetti ai lavori, come qualcosa di troppo difficile per essere accessibile ai più, quello del web viene definito come un campo neutro nel quale si operano esclusivamente scelte tecniche. Tutto questo è falso: il web, come ogni dimensione delle nostre vite, è un terreno di esercizio di rapporti di potere, di controllo, di scelte prettamente politiche.
Lo scandalo di Cambridge Analytica di pochi mesi fa ha fatto esplodere questa verità nel dibattito pubblico: milioni di persone hanno scoperto che i loro profili Facebook erano stati violati, che le informazioni che avevano immesso sul social network, insieme a tante altre, erano state utilizzate per operare una gigantesca opera di manipolazione. Si è acceso così un dibattito sui dati, sulla privacy, sul controllo che ognuno ha sul proprio profilo virtuale.
In Italia, è stata la proposta fatta qualche giorno fa ministro Di Maio di fornire “mezz’ora di connessione gratis al giorno” a far discutere di internet, anche se solo per qualche ora, in linea con i tempi sempre più veloci della notiziabilità e del dibattito.
Intanto è in corso, a livello europeo, una discussione fondamentale, che potrebbe cambiare internet per come lo conosciamo, quella sulla riforma del copyright online, la cui approvazione del testo è prevista per giovedì prossimo, 5 luglio. Una riforma di cui non si parla (o se ne parla poco), per quanto vada a toccare un tema importantissimo: chi esercita il controllo sul web, e come?
INTERNET E CONTROLLO TRA PROFILAZIONE, COPYRIGHT E CENSURA
Torniamo allo scandalo di Cambridge Analytica: quando il New York Times e Guardian hanno rivelato al mondo come lo staff di Donald Trump avesse sfruttato i dati estratti da Facebook tramite un’app per costruire una campagna elettorale estremamente efficace e orientare le scelte di milioni di cittadini, si è scoperchiato un vaso di Pandora. Tantissime persone – tantissimi di noi – che ogni giorno immettono informazioni personali sui social e autorizzano siti e applicazioni ad accedervi, senza curarsene troppo, hanno potuto vedere come vengono utilizzati questi dati. Questo non ha comportato una cancellazione di massa da Facebook, ma anche se ciò fosse accaduto, sarebbe stato poco utile: la nostra identità virtuale è ben più articolata di quanto non pensiamo, perché ogni azione che compiamo (e non solo online) si traduce in dati. Attraverso un processo continuo, 24 ore su 24, di analisi, incrocio ed elaborazione di queste informazioni si producono i big data. Ѐ così, che ad esempio, ci apparirà nella home di Facebook l’offerta di un volo proprio per la vacanza che stavamo progettando e che avevamo googlato poco prima. Ed è così che ci vengono proposte notizie che ci sembrano immediatamente interessanti e ce ne vengono nascoste tante altre: non è un caso, ma il prodotto del lavoro degli algoritmi, reso possibile proprio dai big data di cui si parlava prima. Non è complottismo dire che qualcuno controlla le nostre scelte: i dati che produciamo in continuazione finiscono in banche dati delle quali ignoriamo l’esistenza, e consentono a grandi multinazionali di arricchirsi enormemente. E, come ci insegna lo scandalo di Cambridge Analytica, non sono solo le scelte di consumo ad essere orientate, ma anche quelle politiche, fino all’espressione del voto. Il fatto stesso, insomma, che qualcuno – i colossi informatici e finanziari – possegga i dati, gli strumenti per elaborarli e la conoscenza dei linguaggi, lo pone nella condizione di poter esercitare un controllo che è tanto più pervasivo quanto più è invisibile.
Cosa c’entra tutto questo con la scelta di Wikipedia di oscurare tutte le pagine? C’entra eccome.
Facciamo un passo indietro, tornando alla riforma del copyright che verrà votata tra pochi giorni in Parlamento Europeo. Gli articoli maggiormente criticati sono due, l’11 e il 13, che riguardano rispettivamente la protezione delle pubblicazioni di carattere giornalistico in caso di utilizzo digitale e l’utilizzo di contenuti protetti da parte di piattaforme sulle quali un gran numero di utenti carica una mole molto elevata di contenuti multimediali, come YouTube o Facebook.
L’articolo 11 prevederebbe, in breve, che i cosiddetti aggregatori di notizie (ad esempio Google News) paghino una determinata somma di denaro all’editore che ha scritto un articolo del quale pubblicano link ed estratto. Potrebbe sembrare una cosa positiva, se questi aggregatori non fossero molto più potenti dei siti e delle testate. Cosa significa? Significa che Google News potrà decidere di non pagare al piccolo editore x o al sito y questa somma, cancellandolo dalla piattaforma e, con un’altissima probabilità, facendo crollare il suo numero di visite. La tutela si trasforma facilmente in distruzione o censura.
Il tema è, ancora una volta, quello del controllo e della proprietà: fino a che esisteranno colossi con un potere contrattuale pressoché infinito, o in ogni caso non paragonabile a quello di chi immette i contenuti sul web, fino a che non si ragionerà seriamente di redistribuzione della ricchezza e del potere, qualsiasi discorso sulla tutela risulterà fallace in partenza.
Nell’articolo 13 il rischio di censura è ancora più esplicito. Per tutelare il copyright, si prevede un meccanismo di controllo preventivo su tutti i contenuti che vengono caricati dagli utenti sulle piattaforme. Per intenderci: oggi su una piattaforma come Facebook alcuni contenuti vengono rimossi, dopo segnalazioni fatte dagli utenti o – il più delle volte – dagli algoritmi della piattaforma stessa (che gli utenti non conoscono). Cosa cambierebbe con la riforma? Questo controllo avverrebbe prima della pubblicazione online. Migliaia di video, foto, illustrazioni, riflessioni potrebbero non vedere mai la luce se ritenute colpevoli di aver violato il copyright. Come avvenga questo controllo, non è dato saperlo. Quali contenuti potrebbero essere interessati? Potenzialmente, qualsiasi cosa della quale non si possa dimostrare la totale autenticità; quasi sicuramente, tutti quei contenuti che in chiave satirica o parodistica utilizzano immagini o video di terzi (ad esempio, i meme). La censura è dietro l’angolo: si sta consegnando a dei privati, che tengono nascosti i propri linguaggi e meccanismi di funzionamento, il potere di decidere cosa è giusto vedere e sapere e cosa no.
Già oggi, come si è visto ad esempio rispetto al caso di Cambridge Analytica, chi naviga sul web ha pochissimi strumenti per sapere cosa le piattaforme conoscono di lui, come utilizzeranno i dati raccolti. Già oggi, chi ha le maggiori risorse finanziarie può influenzare le statistiche di visualizzazioni di determinati contenuti. Rendere giudice del web chi detiene già un potere enorme significa consentirgli di accrescere enormemente il suo potenziale di controllo. Significa rendere internet uno spazio ancor più verticale.
Le domande, a questo punto, potrebbero essere queste: ci basta avere la possibilità di accesso a internet, se poi l’internet cui abbiamo accesso è uno spazio chiuso e sotto il controllo esclusivo di pochi? Se la risposta è no, qual è invece la prospettiva?
INTERNET E DISEGUAGLIANZE: CONTRO IL POTERE DI POCHI, SAPERI LIBERI PER TUTTI
Siamo sicuri che oggi internet sia davvero accessibile a tutti?
Se l’internet è la riproduzione virtuale della nostra quotidianità il digital divide rappresenta rappresenta il riflesso delle diseguaglianze nell’accesso alla tecnologia. Un italiano su tre dichiara di non accedere in nessun modo a qualsiasi strumento digitale, statistiche simili riguardano le condizioni di povertà assoluta nel nostro paese. Con digital divide possiamo intendere, dunque, ampliando il campo, la ripercussione nel mondo virtuale delle stratificazioni sociali esistenti, che vanno a condizionare entrambi i macro ambiti precedentemente citati, accesso e comprensione. Rispetto ai fattori sull’accesso, bisogna tenere in considerazione sia l’aspetto reddituale che territoriale, tenendo bene in considerazione la definizione di margine della società. Chi vive nelle periferie, geografiche e sociali, del nostro paese vive di carenze su ogni aspetto delle infrastrutture del nostro paese, dai servizi, ai trasporti, passando per le telecomunicazioni. Non si può pensare però che il nodo del digital divide sia solo collegato ad una carenza di investimenti in infrastrutture: il tema è fortemente economico, legato anche alla sfera partecipativa e decisionale. Se non si abbatte la diseguaglianza economica non ha senso continuare ad installare chilometri di fibra ottica nelle nostre città. La vita digitale, sempre più centrale nella nostra vita, è un lusso: chi ha di meno nel nostro paese, ha meno possibilità di partecipare, comprendere e decidere; chi ha di più non solo partecipa, bensì copta. Diversi casi, vedi Cambridge Analytica, evidenziano il ruolo che i poteri forti hanno attribuito all’internet. La scelta delle istituzioni UE si colloca nella scia della decisione di Trump di abolire la net neutrality negli USA, lasciando ai colossi multinazionali del web la possibilità di discriminare i fornitori di servizi online garantendo velocità di navigazioni differenti: chi paga di più avrà maggiore visibilità dei propri contenuti. Fuori dalla retorica del mondo connesso, in questo momento lo spazio digitale è il primo strumento di dominio dall’alto verso il basso.
Risulta evidente che a causa dello svilimento del ruolo dell’istruzione pubblica, maggiore responsabile della crescita dell’analfabetismo funzionale nel nostro paese, i margini della decisionalità e della libera e consapevole partecipazione si siano drasticamente ridotti. Fake news e manipolazione dei dati non sono stati episodi frutto del “vandalismo digitale” bensì strumenti di propaganda nelle mani dei grandi monopoli di gestione dell’internet per conto dei populismi xenofobi internazionali. Se è vero che milioni di persone ad oggi sono tagliate fuori dagli spazi digitali, la priorità in questo campo non può essere solo garantire l’accesso universale ma anche chiarire a cosa esattamente si sta accendendo. L’internet non può continuare ad essere uno spazio di interazione composto da milioni di prosumer(produttori e consumatori di dati, che siamo noi) e pochissime piattaforme proprietarie di tutta la nostra intelligenza collettiva.
Perché diventi uno spazio realmente accessibile e attraversabile, oltre il livello base legato alla possibilità di accesso materiale, è necessario mettere in discussione un modello in cui le grandi corporation detengono la proprietà assoluta di dati, server, linguaggi.
L’internet deve (e potrebbe) essere uno strumento di liberazione collettiva, mentre negli ultimi decenni si è trasformato sempre più in uno spazio di controllo delle idee, dei consumi e dei comportamenti individuali e collettivi. Il web viene infatti utilizzato da poche grandi imprese multinazionali per produrre profitto tramite i nostri dati e la nostra esigenza di interazione e informazione quotidiane, spesso utilizzando strategie di elusione fiscale per evitare ogni forma di redistribuzione della ricchezza prodotta tramite i nostri accessi alla rete.
Tuttavia le istituzioni dovrebbero farsi garanti della libertà e dell’accesso universale all’internet, iniziando dall’imposizione del controllo pubblico sui dati. Come abbiamo visto, una grande quantità di dati può addirittura condizionare l’elezione del Presidente degli Stati Uniti: lasciare il controllo di questi strumenti di potere in mano a pochi privati miliardari è un grave pericolo per la democrazia che non possiamo tollerare. Così come non possiamo accettare che la rete sia il nuovo campo di censura del dissenso. Dobbiamo garantire la libera espressione online, limitando la rimozione di contenuti o il divieto di accesso alla discussione virtuale solamente nei casi in cui le autorità giudiziarie abbiano accertato che siano violati i diritti e l’incolumità delle persone. I privati o la polizia non hanno alcun diritto di negare il diritto di parola, altrimenti verrebbe meno un pilastro della democrazia.
Se il controllo dei dati e la tutela della libertà di espressione da parte delle istituzioni pubbliche sono misure necessarie, non possiamo nemmeno tollerare l’assenza di trasparenza dei meccanismi che determinano il funzionamento del web: gli algoritmi ed i codici di programmazione devono essere a libero accesso e messi a disposizione di tutte e tutti, evitando la concentrazione di potere nelle mani di pochi.
Infine deve essere abolito il copyright, garantendo il libero accesso a tutti i contenuti online, perché l’internet può essere uno strumento straordinario per liberare i saperi e metterli in condivisione tra miliardi di persone senza limiti di tempo e spazio. Questa è la sfida epocale che abbiamo davanti, una rete al servizio del profitto di pochi, oppure uno spazio digitale che permetta la condivisione della conoscenza tra tutte e tutti in condizioni di uguaglianza.
Il Ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio ha dichiarato recentemente che il Governo non avrebbe applicato il regolamento europeo sul copyright, oltre alla garanzia di mezz’ora di connessione ad internet per tutti i cittadini. Sono proposte, per quanto non sufficienti, che vanno nella giusta direzione di garantire l’accesso ad internet e la liberazione dello spazio digitale dal dominio di pochi. Ora rivendichiamo l’immediata presa di posizione dell’intero Governo con la garanzia che l’Italia non applicherà questo attacco alla democrazia e che sosterrà nelle istituzioni europee la necessità di politiche per l’accesso universale e gratuito alla rete e la tutela della libertà sul web.
http://www.retedellaconoscenza.it/blog/2018/07/03/perche-wikipedia-oscurata-web-controllo-potere-liberazione-dei-saperi/