Venerdì sera a casa da solo: Zaira è andata a cena con le sue colleghe. C’è il mondiale: siamo già ai quarti di finale e non ho ancora visto una partita tutta intera. Tra poco comincerà Brasile-Belgio; spero sia un bell’incontro e decido di tifare Belgio, perché immagino che perderà. E’ la sindrome di Ettore. Non ho voglia di cucinare solo per me e soprattutto non ho voglia di lavare i piatti. Scendo dal kebabbaro sotto casa: ci sono pizzerie migliori a Salsomaggiore, decisamente migliori, anche vicine a casa nostra, ma voglio far presto e spendere poco, e voglio uscire vestito come sono in casa. Prendo la pizza, me la faccio tagliare a spicchi, prendo anche una bottiglietta di birra di una nota marca olandese, molto mainstream – spendo in tutto 7 euro e cinquanta – e sono a casa per gli inni. Visto che ormai siamo tutti social faccio una foto, peraltro venuta non molto bene, dove riesco a mostrare la pizza nel suo cartone, la birra e il televisore acceso. Mangio la pizza rigorosamente dal cartone, senza posate, bevo la birra dalla bottiglietta e guardo la partita, in cui inaspettatamente la squadra per cui faccio il tifo passa in vantaggio. E vince.
So che a voi non importa nulla di come io abbia trascorso un caldo venerdì sera di luglio, ma aspettate: in questo raccontino c’è anche la morale. Sotto la foto, insieme a qualche like e ai graditi saluti di alcuni amici, arrivano le critiche. Mi aspettavo a dire il vero qualche presa in giro, visto che a me piace cucinare e quindi mi vanto su “faccialibro” di piatti che mi sono venuti bene, almeno in foto. Invece i commenti hanno altro tenore: la pizza non si deve mangiare nel cartone, perché dà un cattivo sapore al cibo, meglio una vera pizza napoletana, meglio una birra artigianale, o in subordine una birra di una nota marca della Sardegna, peraltro di proprietà di quella stessa azienda olandese così mainstream. Ecco venerdì sera ho avuto la conferma di quello che diceva Lenin: lo slowfoodismo è una malattia infantile del comunismo.
Io credo di riconoscere la differenza tra una buona birra artigianale e una normale birra prodotta in maniera industriale e anche tra una pizza preparata con ingredienti di qualità e una con prodotti non di prima scelta. E naturalmente so che devono avere prezzi diversi, perché per preparare una buona pizza o una birra artigianale serve molto lavoro e il lavoro deve essere pagato. Poi noi non siamo sempre disposti a pagare un prezzo alto per quello che mangiamo o beviamo, molto spesso non possiamo permettercelo e a volte qualcuno che se lo può permettere non ne capisce neppure la differenza.
So che per molto tempo abbiamo creduto fosse una battaglia di sinistra valorizzare i prodotti di fascia alta, ma forse è anche per questo che abbiamo perso, che siamo diventati un’altra cosa, che abbiamo smesso di capire quelli che mangiano la pizza nel cartone e bevono birre mainstream. Perché le persone normali, le persone che noi dovremmo difendere, sono costrette a fare le loro scelte solo in base al costo e a chi si trova in queste condizioni non possiamo proporre sempre il biologico, il naturale, il km 0, ossia tutto quello che è decisamente migliore, ma anche quello che costa di più – perché deve costare di più – e quindi quello che loro non si possono permettere. Inseguendo il cibo di qualità, ci siamo dimenticati che la maggior parte di noi mangia ogni giorno cose di scarsa o scarsissima qualità.
Allora dovremmo fare una battaglia politica affinché quello che costa ragionevolmente poco sia anche di qualità accettabile, o che comunque nell’industria alimentare i risparmi non siano solo a danno della qualità delle materie prime o degli stipendi dei lavoratori. Possiamo fare tutte le battaglie per sostenere i piccoli produttori, i negozi sotto casa, l’alimentazione di qualità, ma dobbiamo soprattutto lottare perché la qualità sia appannaggio di tutti.
Io posso permettermi una pizza migliore e una birra artigianale – anche se sto in casa in canottiera a guardare la partita – posso permettermi di andare a fare spesa dagli agricoltori del mio territorio, posso preferire i negozi di vicinato, ma sono un privilegiato, anche se non ho un rolex. A me interessa di più che molte famiglie non siano costrette a fare sempre la spesa in un hard discount dove i lavoratori sono pagati poco – questo purtroppo succede non solo lì, ma anche in supermercati dove i prodotti costano di più e quindi i padroni hanno maggiori ricavi – e dove i prodotti costano poco perché sono scadenti.
Ricordate che il vecchio Marx diceva quella cosa sul pane e le rose? Forse noi ci siamo fissati un po’ troppo sulle nostre rose e ci siamo scordati che a molti nostri fratelli manca il pane. E ci siamo dimenticati che quel pane deve costare poco e deve essere di buona qualità. E che chi fa il pane per noi deve essere pagato in maniera equa per il suo lavoro. Poi verranno anche le rose e il pane fatto con farine biologiche macinate a pietra e lievito madre.

 

 

 

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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