Riceviamo e pubblichiamo
Franco Astengo
Settantesimo anniversario dell’attentato a Togliatti: 14 luglio 1948.
E’ ancora il caso ricordare quel fatto perché non si smarrisca la memoria di uno degli snodi più importanti nella storia d’Italia del secondo dopoguerra.
L’attentato al segretario del PCI, Palmiro Togliatti, scosse profondamente l’Italia e il mondo, in una fase di fortissima contrapposizione fra le due grandi potenze, quella americana e quella sovietica, che avevano appena avviato il confronto della “guerra fredda”.
La fase registrava anche un’assoluta fragilità della democrazia italiana, appena ricostruita dopo i vent’anni del fascismo e la tragedia della guerra attraverso il lavoro dell’Assemblea Costituente.
Il 18 Aprile di quello stesso 1948 si erano svolte le elezioni per la I legislatura repubblicana in conclusione di una tesissima campagna elettorale che aveva visto contrapposti la visione “liberal-atlantica” della Democrazia Cristiana, appoggiata dalla Chiesa Cattolica che usò tutte le sue possibili sfere d’influenza, e il Fronte Democratico Popolare, formato da comunisti e socialisti.
Il risultato delle urne aveva assegnato la maggioranza assoluta alla DC, in un clima di rivendicazioni sociali molto forti dettate dalle precarie condizioni di vita di gran parte della popolazione.
La frattura provocata nel Paese dal voto del 18 aprile si stava rivelando in tutta la sua gravità e non contribuì ad attenuarla l’elezione del Presidente della Repubblica.
Nelle settimane successive l’attenzione del Parlamento fu polarizzata dalla ratifica dell’accordo con gli Stati Uniti relativo al Piano Marshall siglato a Roma il 28 giugno.
Nella discussione generale alla Camera Togliatti intervenne il 10 luglio con un discorso nel quale si sottolineava come quell’accordo prevedesse una serie d’impegni che: “oltre ad aprire prospettive di stentata vita economica e di lenta degradazione della nostra economia, rappresentavano un pericolo per l’indipendenza nazionale perché legavano l’Italia alla politica di guerra dei gruppi dirigenti imperialisti degli Stati Uniti”.
Il passo del discorso di Togliatti che fece più scalpore recitava: “Alla guerra imperialista si risponde oggi con la rivolta, con l’insurrezione in difesa della pace, dell’indipendenza, dell’avvenire del proprio Paese”.
Tre giorni dopo un editoriale del quotidiano socialdemocratico “La Giustizia”, siglato dal suo direttore Carlo Andreoni, bollando la “jattanza con la quale il russo Togliatti parla di rivolta”esprime la certezza che “il governo della Repubblica e la maggioranza degli italiani avranno il coraggio, l’energia, la decisione sufficiente per inchiodare al muro del tradimento Togliatti e i suoi complici. E per inchiodarveli non metaforicamente”.
Questa prosa virulenta sarà giustamente giudicata emblematica del clima in cui maturò l’attenta di Pallante, attentato del quale in questa sede si tralascia di riportare i particolari di cronaca per rivolgere il massimo dell’attenzione ai risvolti più propriamente politici.
Alla notizia dell’attentato a Togliatti la reazione della base comunista fu immediata.
Portato al Policlinico Togliatti fu sottoposto a un delicatissimo intervento da parte del professor Valdoni: a metà pomeriggio il segretario del PCI aveva già ripreso conoscenza, ma per diversi giorni la sua vita resterà comunque appesa a un filo, anche per via di gravi complicazioni polmonari.
E’ il caso comunque, a distanza di settant’anni di riprendere il filo del ragionamento politico.
A distanza di tanti anni è ancora il caso di rivolgersi una domanda: si verificò davvero il rischio di arrivare alla guerra civile e, soprattutto, quale fu l’esito sul piano politico al riguardo delle prospettive in quel momento della situazione italiana?
Lo sciopero generale che seguì la notizia dell’attentato a Togliatti è stato giudicato da autorevoli osservatori come “lo sciopero generale più completo e più esteso che si sia mai avuto nella storia d’Italia” (Sergio Turone: Storia del Sindacato in Italia 1943-1969. Dalla Resistenza all’autunno caldo. Laterza 1973.)
La base comunista aveva interpretato, senza esitazioni, l’attentato a Togliatti come l’atto estremo di una reazione volta a cancellare il PCI: gli altri si chiusero in casa e le forze dell’ordine apparvero, subito, prive di ordini precisi.
Antonio Pallante, l’attentatore fu subito arrestato.
I rapporti riservati della polizia, che l’ambasciata USA a Roma ha potuto esaminare, lo descrissero come un isolato fugando immediatamente il sospetto di una trama più vasta. Al processo Pallante dichiarò: “ Sul giornale del PSLI Togliatti era descritto come un uomo infausto, pericoloso per l’Italia, da “inchiodare al muro”. E il capo del PCI annunciava di essere pronto a prendere a calci De Gasperi. Ecco, esaltato da tutto questo, decisi di eliminare il pericolo” (intervista di Antonio Pallante, rilasciata a Pino Aprile di “Oggi” il 19 maggio 1988).
Processato nel luglio 1949 e condannato a 13 anni, Pallante uscì dal carcere nel dicembre 1953 e tornò a Catania dove trovò lavoro come guardia forestale.
La notizia dell’attentato a Togliatti rimbombò immediatamente in Parlamento, cogliendo tutti di sorpresa.
Secchia e Longo seguirono Togliatti al Policlinico. Non ci fu bisogno di proclamare lo sciopero generale, che partì spontaneamente anche nelle sedi più periferiche, esterne al gruppo dirigente centrale, come emerge dalle testimonianze inserite nel volume di Gozzini e Martinelli: “Storia del Partito Comunista Italiano: dall’attentato a Togliatti, all’VIII Congresso” (Einaudi, 1998).
Sull’onda di questo quadro, apparentemente tumultuoso e incontrollabile, la Direzione del PCI si riunì in un clima di grande incertezza derivante non soltanto dalle condizioni fisiche di Togliatti, ma anche e soprattutto al riguardo delle valutazioni inerenti il tipo di attacco cui era sottoposto, in quel momento, il Partito.
Emerse subito un orientamento unitario: quello di una risposta forte ma ordinata, che predisponesse una linea di difesa organizzativa e militare contro ogni tipo di aggressione.
Una seconda linea di dirigenti (Barontini a Livorno, Pellegrini a Venezia, Spano a Genova) fu inviata nelle situazioni che si annunciavano come le più difficili.
Fu emesso un comunicato chiedendo le dimissioni del governo e Ingrao preparò per l’Unità un titolo “Via il governo della guerra civile”: entrambi gli atti sottolineavano, oggettivamente, il carattere pacifico della protesta.
Al tempo stesso la non definizione di obiettivi immediati fu testimoniata dallo stesso comunicato con cui la CGIL proclamò ( a posteriori) lo sciopero generale “in attesa di ulteriori disposizioni”.
A spingere verso la moderazione ci fu, senza dubbio, anche la stessa voce di Togliatti all’atto del ferimento: il suo invito a stare calmi e a non perdere la testa.
La Camera si riunì in una tempestosa seduta, nel corso della quale De Gasperi espresse la preoccupazione e l’ansia per “l’atmosfera di odi e di risentimenti, che l’esecrando attentato avrebbe potuto innescare”.
La ricostruzione della geografia del moto popolare che scosse, in quel momento, l’Italia appare come una geografia frastagliata e , di conseguenza, di per stessa significativa.
Secondo i dati esposti dal ministro dell’Interno Scelba, nella seduta del Senato del 20 luglio, il bilancio complessivo degli scontri contò 16 morti ( 7 civili e 9 agenti di polizia) e oltre duecento feriti, concentrati nelle maggiori realtà urbane del Centro-Nord, con la vistosa eccezione del paese di Abbadia San Salvatore, alle pendici del monte Amiata.
Al Sud si verificarono scontri tra dimostranti e polizia a Napoli, Salerno e Taranto, tentativi di blocco del traffico a Cagliari, manifestazioni e scioperi riusciti a Cosenza, Vibo Valentia, Crotone, Messina e Sassari; le sedi della DC furono devastate a Foggia, Lecce, Messina, Matera e Salerno.
Il quadro fornito dal Mezzogiorno è quello di un movimento di protesta non particolarmente organizzato, che non prende di mira i centri del potere istituzionale.
Diverso è il quadro delle città del triangolo industriale: Genova, che rappresentò il caso estremo, fu isolata fin dalle prime ore del pomeriggio da una serie di posti di blocco nelle principali vie d’accesso all’abitato: apparve chiaro il dispiegarsi di un’attività coordinata di presidio del territorio organizzato per difendere la Città da attacchi esterni: una struttura di ordini e di comando elaborata in caso di colpo di Stato, quindi in funzione difensiva (cfr: “Paride Rugafiori, in AA:VV “ Genova, il triangolo industriale tra ricostruzione e lotta di classe 1945 – 1948” Feltrinelli 1974).
A Milano, Torino, Venezia, l’esistenza di questo piano di difesa appare avvalorata dall’immediata occupazione delle fabbriche più importanti :alla Fiat rimane al suo posto, nella fabbrica occupata, anche il presidente Valletta.
Blocchi stradali comparirono anche alla periferia di Roma e nelle campagne toscane; i binari delle ferrovie furono interrotti a Foligno, Fidenza, Massarosa.
Il grosso delle azioni offensive verso le sedi di partiti di governo si verificarono nella notte tra il 14 e il 15 Luglio a Roma, Viterbo, Udine, Forlì, Reggio Emilia, Ferrara, La Spezia, Pistoia, Savona, Cesena, Venezia, Varese, Civitavecchia, Padova e Perugia.
A Piombino fu assaltata la caserma dei carabinieri e quella della guardia di finanza chiedendo la consegna delle armi e a Busto Arsizio si tentò, senza successo, un assalto alle carceri nelle quali erano rinchiusi partigiani condannati per atti di guerra.
La mattina del 15 Luglio la CGIL, con DI Vittorio appena rientrato dalla Conferenza Internazionale del lavoro di San Francisco, si incontrò con De Gasperi aprendo la trattativa per il rientro dallo sciopero.
L’esecutivo della Confederazione, assente la componente democristiana che stava già preparando la scissione “liberina”, emise un comunicato fissando la fine delle agitazioni per il mezzogiorno del 16 Luglio : l’ordine fu eseguito anche se, in particolare a Milano e Torino, la “normalizzazione” incontrò serie difficoltà.
A sciopero finito la Direzione del PCI rivolse un nuovo appello per cercare un equilibrio tra la valorizzazione della combattività delle masse e la preoccupazione di rientrare nell’ambito di una politica costituzionale.
E’ questo il punto politico “vero” di questa vicenda, sul quale è il caso, ancor oggi, di soffermarsi nell’analisi.
La domanda è questa : si può sostenere, sulla base di ciò che avvenne attorno a quel drammatico 14 Luglio 1948, che si ebbe una “delle maggiori dimostrazioni della “doppiezza” comunista intesa non solo come duplicità di impostazioni tattico – strategiche, ma anche proprio come scontro di linee tra anime diverse del partito?” (tesi sostenuta da diversi autori, da Pinzani a Di Loreto a Simona Colarizi).
Nell’emergenza drammatica del Luglio 1948 il gruppo dirigente del PCI si dimostrò unito dimostrando come, nei tempi brevi della politica, il partito fosse legato prima di tutto a una sostanziale adesione alle regole e ai meccanismi di funzionamento della Costituzione repubblicana.
La dimostrazione di questa unità da parte del gruppo dirigente del PCI non fu comunque esente da frizioni che certamente avrebbero avuto, in seguito, un peso nella vita interna del partito e che non possono essere sottaciute.
E’ innegabile che, da quel frangente, il sistema politico restasse diviso da una profonda linea di frattura suscitata dal sospetto reciproco sulle intenzioni antidemocratiche dell’avversario: una linea di frattura che riprendeva e allargava quella più generale determinata dalla guerra fredda e dalla logica dei blocchi.
La contraddizione più significativa che era emersa, però, da quelle giornate riguardava invece il complesso della cultura politica patrimonio del Partito.
In quell’occasione però prevalse chiaramente la linea, il cui concretizzarsi rappresentava la massima preoccupazione di Togliatti, quella della “legittimazione nazionale del Partito”, quella del suo pieno inserimento nei gangli del meccanismo sociale, politico, istituzionale, per far vivere davvero il “partito nuovo” e porlo al riparo dal rischio di un inasprirsi secco della repressione poliziesca e delle possibili richieste – addirittura – di “messa fuori legge” (sono anche i mesi dell’anatema lanciato verso i militanti comunisti dalla Chiesa Cattolica).
Il punto forte d’aggancio per la “legittimazione nazionale” del PCI era rappresentato dalla Costituzione.
La Costituzione, alla cui stesura i parlamentari comunisti avevano fornito un fondamentale contributo, costituiva un argine contro la tendenza all’arroccamento.
La Costituzione intesa come punto d’approdo non parziale e transitorio anche al riguardo della “doppiezza”.
L’esito più importante di quella tormentata stagione fu dunque rappresentato da un’espressione piena di lealismo costituzionale da parte comunista, attraverso il quale si esprimeva un’indubbia radice di integrazione nella democrazia repubblicana.
Una tappa significativa del processo di acculturazione democratica del PCI posto al centro di un complesso ed anche contradditorio processo di lungo periodo, come tutti quelli che si verificano nella sfera della cultura collettiva.
Un principio, quello della piena integrazione nella realtà politica formatasi attorno al detto costituzionale, dimostratosi saldamente acquisito come si verificherà nel futuro, in altri difficili frangenti come quelli del ’53 con la “legge truffa” , del ’56 con il verificarsi quasi contemporaneo del XX congresso del PCUS e dei fatti d’Ungheria, del ’60 con i fatti del Luglio e la caduta in piazza del governo Tambroni.
Il “partito nuovo” di impronta togliattiana, come aveva superato il frangente del Luglio ’48 superò anche quei complessi passaggi appena citati dimostrandosi, nella sostanza, pilastro della democrazia repubblicana e, insieme, per milioni di iscritti e di elettori portatore di una prospettiva di cambiamento per il futuro.
Il PCI inteso in quel momento come espressione politica piena, nella sua autonomia e nella sua capacità di radicamento sociale e di identità organizzativa del movimento operaio italiano.
Il 26 settembre 1948 Togliatti rientrò nella vita pubblica pronunciando un comizio alla festa dell’Unità organizzata al Foro Italico a Roma.
Nell’occasione Carlo Lizzani girò un film “Togliatti è tornato” che traduce quel momento politico in immagini di straordinaria efficacia.
Sono immagini rivelatrici dell’ampiezza e della varietà del consenso che il PCI in quel momento riscuoteva presso una società italiana per molti versi più simile a quella degli anni’30 che a quella del decennio che da lì a poco sarebbe cominciato.
Il 30 settembre Togliatti riprese anche il suo posto alla Camera.
Rispondendo alle parole di bentornato rivoltegli dal presidente Gronchi e cogliendo in esse una manifestazione di rispetto per un “costume di tolleranza per le ideologie e le fedi diverse, per gli uomini che combattono per le loro idee, per i loro principi nell’anelito di un regime democratico” aggiunge:
“ Un saluto particolarmente commosso a coloro che dopo aver manifestato il proprio sdegno apertamente e in modo vivace, hanno perduto la loro libertà, sono stati messi in carcere da una cieca reazione” ( si ricorda ancora il bilancio ufficiale presentato dal ministro Scelba al termine dello sciopero generale che fu di : 9 morti e 120 feriti tra le forze di polizia; 7 morti e 86 feriti tra i cittadini. Gli arrestati furono migliaia,ma esistono versioni diverse).
Togliatti concluse il suo discorso ammonendo:
“ il giorno che nel nostro popolo andasse perduta la capacità di sdegnarsi e scendere in campo per respingere le offese fatte alla democrazia e ai suoi uomini, quel giorno la democrazia stessa sarebbe finita, e questo Parlamento non saprebbe più su quale fondamento basare la sua esistenza e le sue funzioni”.(testo dell’intervento di Togliatti tratto dalla biografia di Aldo Agosti – UTET 1996)
Parole da tenere a mente soprattutto oggi.