In preda al collasso economico del 2007-2008, avevo previsto che l’economia globale sarebbe stata irrevocabilmente e qualitativamente rovinata dagli eventi in corso. Ravvisavo un cambiamento nella struttura delle relazioni internazionali, un allontanamento dal cosiddetto interludio della “globalizzazione”.
di Greg Godels (Zoltan Zigedy) – http://zzs-blg.blogspot.it/
Scrivevo nel novembre del 2008: La crisi economica ha invertito il processo post-sovietico di integrazione internazionale, la cosiddetta “globalizzazione”. Come durante la Grande Depressione, la crisi economica colpisce le diverse economie in modi diversi. Nonostante gli sforzi per integrare le economie mondiali, la divisione internazionale del lavoro e i diversi livelli di sviluppo precludono una soluzione unificata al disagio economico. I deboli sforzi nell’azione congiunta, nelle conferenze, nei vertici, ecc, non possono avere successo semplicemente perché ogni nazione ha interessi e problemi diversi, una condizione che diventerà più acuta man mano che la crisi si intensificherà.
Una crisi della gravità del 2007-2008 mette comprensibilmente in discussione alcune verità precedenti, ma soprattutto rende alcune strade economiche ormai impraticabili. La mia opinione era che l’era dello scambio internazionale completamente aperto, libero e sicuro che alimentava una importante crescita degli scambi di merci non era una nuova fase del capitalismo – come molti pretendevano – ma una fase creata da fattori politicamente contingenti e stimolata dall’intensificarsi della competizione internazionale degli ultimi trenta anni del ventesimo secolo. Inoltre, quella fase, chiamata inutilmente “globalizzazione”, fu sia fortuita che disastrosa per il destino del capitalismo, come ho approfondito ulteriormente nell’aprile del 2009:
Per semplificare notevolmente, un ordine capitalistico sano e in espansione tende a promuovere periodi di cooperazione globale – rafforzati da un potere egemonico – ed espansione commerciale, mentre un ordine capitalista malato tende verso l’autarchia e al nazionalismo economico. La Grande Depressione fu un chiaro esempio di nazionalismo accresciuto e di autoassorbimento economico. La maggior parte dei commentatori riconosce questo fatto, ma lo attribuisce alle inclinazioni dei leader nazionali. Si diceva che Roosevelt “sabotasse” la Conferenza economica di Londra, per esempio. In precedenza, aveva affermato: “I nostri rapporti commerciali internazionali, sebbene di enorme importanza, sono in termini di tempo e necessità secondari all’instaurazione di una sana economia”. È mia opinione, e credo essenziale per una comprensione marxista, che la reazione di Roosevelt sia stata un’espressione della logica del capitalismo sotto stress, lo sviluppo strutturale che ha portato all’intenso nazionalismo in tutta Europa, soprattutto in Germania e in Italia, e in ultima analisi alla guerra.
Lo stress del collasso economico del 2007-2008 ha creato “forze centrifughe”, smontando le istituzioni, i regolamenti e l’impegno a un mercato globale aperto, unificato e universale. Al suo posto si concretizzerebbe una crescente partigianeria nazionale, un impegno per vincere contro gli avversari, piuttosto che una partnership. Questo processo di “de-globalizzazione”, di andare avanti da soli, vincerebbe contro il processo e l’ideologia dell’integrazione economica.
Credo che queste proiezioni siano state confermate. Il mio articolo del febbraio 2017 Nuovi sviluppi in economia politica: la scomparsa della “globalizzazione”, sostiene che l’internazionalismo di mercato dell’era post-sovietica sia in profondo declino. Inoltre, il nazionalismo emergente trae vitalità dalla reazione al fallimento dell’ordine globale. Gli eventi nei mesi trascorsi dall’articolo evidenziano una volta di più questa affermazione.
Nazionalismo economico crescete
Il presidente Trump ha sostanzialmente definito l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC – WTO) irrilevante per le politiche commerciali statunitensi. Ma lo scetticismo sull’OMC precede la sua ascesa politica da nazionalista. L’Agenda per lo sviluppo di Doha del OMC, si è impantanata dopo il suo annuncio e si è rivelata inefficace dai suoi esordi nel 2001 e soprattutto dopo il 2008. Il numero annuale di controversie commerciali dell’OMC è più che raddoppiato dal 2008, nonostante la crescita degli scambi sia stata tiepida (al di sotto del PIL globale negli ultimi 3 anni), un sicuro segno di crescenti sentimenti protezionistici. La recente riunione dell’OMC del 10-13 dicembre è stata in gran parte un fallimento. “I 164 membri dell’organismo commerciale non hanno raggiunto il pieno consenso su nessuno degli obiettivi principali che si era prefissato prima dell’incontro”, come hanno detto Bryce Baschuk e Charlie Devereux di Bloomberg, con l’UE che imputava il fallimento ai “comportamenti distruttivi di diversi grandi paesi”.
Ma l’Unione europea (UE) sta essa stessa attraversando un’esplosione di nazionalismo economico. Mentre la stampa popolare e i sapientoni liberali sottolineano il ruolo della xenofobia nella Brexit, vengono ampiamente trascurati i mali economici che hanno alimentato la crescita del nazionalismo nel voto del Regno Unito contro l’integrazione europea. Inoltre, l’ampiezza del rifiuto delle politiche di mercato aperto in tutta l’UE è ampiamente ignorata.
Un recente articolo The Wall Street Journal (WSJ 14/12/2017) corrobora le mie proiezioni fatte nel 2008 e nel 2009 per l’UE:
La crisi finanziaria scoppiata nel 2008 ha causato un calo degli scambi tra i paesi dell’UE, con un leggero rimbalzo rispetto ai livelli precrisi. Con un Europa più evanescente, molti politici si sono sforzati di sostenere le economie dei loro paesi con soluzioni che hanno privilegiato i mercati interni dell’UE. (L’UE, un discepolo del libero commercio, sta erigendo barriere)
La giornalista del WSJ, Valentina Pop, sceglie l’esempio di Emmanuel Macron, il nuovo presidente francese, per evidenziare la tendenza nell’UE. Macron ha agito come difensore appassionato dell’europeismo e del libero mercato. Nondimeno, ha nazionalizzato un’industria cantieristica per bloccarne l’acquisto da parte di un’azienda italiana, sostiene la limitazione dell’impiego all’estero e ha “stritolato” le importazioni di prodotti caseari dai paesi dell’UE. Ulteriori prove dell’abbandono dei mercati senza frontiere e l’abbraccio del nazionalismo provengono dalla crescita delle barriere commerciali: le azioni legali contro i trasgressori dell’apertura del mercato unico europeo sono più che triplicate lo scorso anno.
All’inizio di quest’anno, la Commissione europea si è mossa legalmente contro la Romania e l’Ungheria e, a giugno, contro la Polonia per controversie economiche.
Nulla mostra la sfilacciatura del consenso verso il mercato unico globale e la svolta al nazionalismo economico più della disputa crescente tra Stati Uniti e Canada e condotta attraverso i loro surrogati aziendali: Bombardier e Boeing. Boeing ha presentato una denuncia contro la compagnia aerea canadese Bombardier con il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. Con la tipica arroganza degli Stati Uniti, il ministero ha appioppato una tariffa del 300% sugli aerei Bombardier venduti negli Stati Uniti.
Indignato il governo canadese ha annullato il suo piano per l’acquisto di 5,2 miliardi di dollari di nuovi Boeing da combattimento per integrare i suoi caccia sempre Boeing. Invece, accetterà offerte nel 2019 per l’acquisto di 88 nuovi caccia, ma con l’avvertimento che qualsiasi offerente che causi un pregiudizio agli interessi del Canada sarà svantaggiato: uno schiaffo non molto sottile alla Boeing.
Inoltre, poiché il Canada è sempre più scontento delle negoziazioni sul NAFTA, il governo si è rivolto alla Repubblica popolare cinese (RPC) per creare un accordo di libero scambio alternativo (le esportazioni di merci canadesi verso la RPC sono più che raddoppiate dal 2007). Chiaramente il nazionalismo economico mette sotto pressione una delle più antiche e più intime collaborazioni commerciali della storia.
Altrove, ho evidenziato i cambiamenti qualitativi nei mercati energetici globali, insieme alla profonda intensificazione della concorrenza e delle ostilità associate. Le mutevoli alleanze energetiche, le oscillazioni delle quote di mercato e le instabilità politiche che sono all’ordine del giorno hanno stimolato la svolta verso il nazionalismo economico.
Cosa significa tutto ciò?
La frettolosa conclusione secondo cui l’espansione dei mercati globali insieme all’omaggio universale a una nuova comunità globale costituiva un cambiamento irreversibile nelle relazioni capitalistiche è ora completamente screditata dalla realtà delle aggressioni imperialiste e dalla crisi economica. In effetti, il periodo della “globalizzazione” coincide con la vasta inclusione di nuove economie, quelle della ex comunità socialista, e l’assoluta egemonia di un potere capitalista, gli Stati Uniti. La storia ha conosciuto altri momenti, ma i teorici, compresi molti sinistri, erano troppo intimoriti dal trionfalismo capitalista, attratti dall’anticomunismo becero e desiderosi di risposte facili per riconoscere questa continuità con la logica del capitalismo monopolistico di stato. Ben prima della prima guerra mondiale, un momento simile si è verificato con la massiccia espansione dei mercati sotto l’egemonia globale dell’Impero britannico, un periodo seguito dal declino economico che stimolava il nazionalismo estremo.
Come sottolineo nel passaggio summenzionato, scritto nel 2009, il normale corso delle relazioni economiche internazionali nell’era del capitalismo monopolistico di stato è caratterizzato da un’intensa competizione, pressione sulla redditività, crisi di accumulazione, nazionalismo crescente e conflitti. Questa è la norma nell’epoca dell’imperialismo. Questa è la logica del tardo capitalismo.
Le apparenze possono suggerire narrazioni diverse – una prosperità duratura nella metà del XX secolo, la pace garantita dall’internazionalismo economico all’inizio del nuovo secolo – ma la realtà è diversa, molto diversa. La realtà è imposta dalla crisi. E lo sconvolgimento del 2007-2008 ha messo in luce la realtà della forte concorrenza e dell’interesse particolare nazionale.
Per alcuni, l’ascesa del nazionalismo è strettamente un fenomeno politico ancorato alla demagogia e all’ignoranza; non vedono alcun collegamento con il corso del capitalismo. Ma la base economica di questo fenomeno non può essere negata. I mercati liberali hanno prodotto la crisi e la conseguente sofferenza umana ha scatenato una risposta politica.
Le classi dominanti, di fronte alla pressione sui profitti derivanti da una concorrenza sempre più disperata e spietata nel quadro di una ripresa flebile come non s’era mai visto, sono inesorabilmente guidate verso il nazionalismo economico. Il nazionalismo economico si coniuga naturalmente con l’ultra-patriottismo dell’estrema destra, ma attrae anche le forze centriste. Elementi del movimento sindacale statunitense e politici dello potere industriale democratico si sono riscaldati al nazionalismo economico fin dai tempi delle importazioni giapponesi. Senatori liberali come Sherrod Brown hanno tranquillamente lavorato con il presidente Trump per rovesciare accordi commerciali come il NAFTA: “strani compagni di letto” nelle parole del Wall Street Journal.
Non dobbiamo insistere troppo sul parallelismo per riconoscere che il nazionalismo economico di oggi minaccia di scatenare guerre disastrose, come ha fatto il rabbioso nazionalismo economico delle potenze europee nel preludio alla prima guerra mondiale (e alla seconda guerra mondiale). Come in entrambe le epoche, ostilità e tensioni covano sotto le ceneri. E come in quell’epoca, la guerra promette di seguirle, con una devastazione che va ben al di là della comprensione di una popolazione compiacente e autosufficiente. La minaccia della guerra generale, della guerra nucleare, è probabilmente più prossima di qualsiasi altra volta in vita mia, eccetto i primi anni della Guerra Fredda del Generale Curtis LeMay “Dr. Stranamore”.
Mentre il nazionalismo di estrema destra è un serio pericolo politico, l’ascesa del nazionalismo economico, il crescente consenso politico con i governanti capitalisti, minaccia l’esistenza stessa di milioni di persone, se non del pianeta.
http://www.sinistraineuropa.it/approfondimenti/come-riconoscere-il-nazionalismo-economico/